Non c’è bisogno di scomodare i fratelli Marx per far volgere la messa in scena di un’Opera verso esiti disastrosi. I complicati meccanismi scenici necessitano di un sincronismo perfetto tra le varie componenti e la natura stessa di opera d’arte vivente del teatro non ammette una seconda possibilità. Il “buona la Prima”, formula che nel cinema acquista un corroborante sapore di contenimento dei costi di produzione, nel teatro, non solo musicale, non ha ragion d’essere: la prima è l’unica, a cui non segue mai una seconda, ma un’altra prima. Come già scritto, l’imponderabilità di un’opera d’arte che si realizza nell’hic et nunc, ne giustifica il poderoso ricorso alla SCARAMANZIA. Ma nè la scaramanzia, nè la professionalità rigorosa di artisti e maestranze, possono scongiurare l’eventualità di incidenti che, in una messa in scena colossale come è di norma quella dell’Opera, possono assumere i connotati di veri e propri disastri. Per questo, mentre nel cinema l’incidente sul set rimane nell’aneddottica o, nei casi più gravi, nella cronaca del dietro le quinte, in teatro, in quello d’Opera in particolare, tende ad assumere automaticamente il profilo proteiforme del mito. L’incidente, in teatro, non è testimoniato dai soli addetti ai lavori, ma accade davanti al pubblico e questo favorisce l’affermarsi di una mitologia credibile.
L’inconvenienza teatrale può essere causata da elementi accidentali o imperizia dei tecnici o degli artisti. L’Opera, data la sua complessità strutturale che richiede la cooperazione di un grande numero di lavoratori, è particolarmente soggetta all’inconveniente. Se poi, come nella stagione estiva, si svolge all’aperto, a questo si aggiungono le bizze del tempo. Tra tutte le Opere, la Tosca di Puccini è quella che detiene il primato di incidenti. Al Covent Garden nel 1965, la parrucca della Callas prese fuoco, costringendo Tito Gobbi, nei panni di Scarpia, a trasformarsi in pompiere, prima di offrire il fianco alla mortale pugnalata della cantante, come da copione. Nello stesso anno, a Caracalla, il Cavaradossi di turno venne ustionato dall’eccessiva carica a salve del plotone d’essecuzione. Peggio andò nel 1995 a un tenore italiano (di cui, per rispetto alla sua volontà di non essere ricordato per l’infausto episodio, non faccio il nome). La carica eccessivamente pressata finì per ferirlo a una gamba; stoicamente, il tenore dopo cure veloci ritornò al suo posto per la seconda rappresentazione, ma finì col rompersi l’altra gamba, cadendo durante l’intervallo.
Ancora il plotone d’esecuzione, nel 1961 a San Francisco, si rese protagonista di una scena degna dei Fratelli Marx: istruito sommariamente dal regista sull’azione da compiere, rimase titubante su chi, tra Tosca e Cavaradossi, dovesse essere il destinatario dell’esecuzione. Dopo Aver puntato i fucili alternativamente sull’uno e sull’altra, optò per la cantante, costringendo il tenore a stramazzare al suolo per degli spari diretti dall’altra parte. Quando poi una cantante se la tira troppo e si attira le antipatie delle maestranze, capita che l’incidente venga provocato volontariamente. E’ il caso dell’edizione del 1960 al Met, sempre della famigerata opera pucciniana. Il materasso che doveva attutire il volo finale di Tosca da Castel Sant’Angelo, venne sostituito da una pedana elastica per ginnasti, col risultato che l’altezzosa soprano rimbalzò più volte, ricomparendo in scena fino al calare del sipario.
Ma la letteratura degli incidenti in corso d’Opera non si ferma alla Tosca. Una mancata sincronia nei cambi scena può aprire scenari non previsti, come accadde nel 1958 nel Don Giovanni del Met, in cui il vuoto lasciato dal ritardo venne colmato da un imprevisto panorama sulla 55a Strada. Così come può capitare che la gobba di Rigoletto non ne voglia sapere di rimanere al suo posto, proprio mentre il buffone sta cantando il Cortigiani (Operà di Parigi, 1954). O Don Josè che, dimenticatosi il pugnale, decide di uccidere Carmen strangolandola, suscitando l’energica difesa della sigaraia (Heidelberg, data imprecisata). Oppure, scherzo o clamoroso errore, una Salomè vinta da una fragorosa risata quando scopre che, al posto della testa del Battista, sul vassoio ci sono i tramezzini (Perth, 1978). E che dire di quelle Opere che possono richiedere l’intervento di ingombranti animali, come gli elefanti nell’Aida, che non si fanno nessun problema ad espellere i loro residui digestivi in forme solide, liquide o gassose nei momenti meno opportuni. Per chi volesse farsi un panorama completo, si consiglia la lettura dei due volumi di Hugh Vickers I disastri all’opera, pubblicati negli anni novanta.