Ogni giorno guardo le foglie dell’albero di fronte all’ufficio e penso che quel quaderno che facemmo alle elementari con una foglia per pagina, incollata, ridisegnata nei contorni, classificata col nome, non sia servito a nulla. Guardo quest’albero e non so di che albero si tratti, guardo le sue foglie e cerco di trovare un appiglio nella memoria per ricordarmi un particolare che mi faccia tornare in mente il suo nome.
Ogni giorno guardo le foglie di quest’albero quando fumo fuori al balcone, quando mi alzo per distrarmi e mi accorgo che smetto di essere concentrata su quello che sto facendo e in automatico mi concentro, senza pensare a niente, a guardare le foglie, il tappeto morbido e scricchiolante dei giorni, rari, di aria secca, bagnato e compatto in quelli umidi. Le guardo cadere e poggiarsi a terra, guardo quelle più fortunate alzate dal vento e trasportate un po’ più lontano, quelle che fanno sembrare che dal cielo grigio/lilla di questi giorni stiano piovendo pezzetti di carta velina color arancio bruciato.
Vado via ogni venerdì con la paura che il lunedì dopo non ce ne siano più, con l’ansia della delusione di essere cadute, tutte fino all’ultima, senza aspettarmi, senza farsi guardare e insieme sento l’impazienza di vedere quell’albero vuoto e nudo, il marciapiede solo grigio e non rosso/arancio/ocra, con l’impazienza di scordare in un attimo com’era quell’albero quando era pieno di foglie. Come ero io quando era verde e rigoglioso, come sono io adesso che le foglie, tra vento e scope che le spazzano ogni giorno, sono chissà dove.
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