Prendiamo i venditori di strada un tempo onnipresenti sui marciapiedi scalcinati della città; oggi affogati dallo smog delle macchine, a rischio d’essere schiacciati, scacciati da chi cerca un parcheggio e maledetti dai pedoni che saltellano fra vecchietti e bambini seduti sui marciapiedi. Un tempo erano una caratteristica della città: vecchi, donne, bambini vendevano i prodotti dei campi, alcuni esibivano per terra qualche limone o cipolla, lungo Ring Road attraevano l’attenzione con mazzi di grandi carote, altri andavano fino a Khasa (confine con il Tibet) a comprare abiti e cianfrusaglie cinesi; poi c’erano gli indiani con le loro biciclette cariche di frutta e verdura, calze e magliette. Un mondo che creava lavoro e reddito (poco) per oltre 8000 persone (e famiglie collegate).
Adesso è diventato tutto più difficile, la polizia li perseguita, chiede multe e bakshish, li obbliga a continui movimenti con la loro mercanzia per sfuggire ai raid della Metro Police. Sta arrivando la primavera a Kathmandu, ma, alla mattina, fa freddo, nebbia fino alle 10, Rita Dangol (newari, casta contadina) ha rischiato ed è andata a Sundhara Chowk a vendere i prodotti dei suoi campi e qualche pezzo di zenzero affidatogli da un vicino. Qui sono vietati gli ambulanti (in base alla legge del 2001) con il consenso anche dei “servitori del popolo” maoisti; solo tollerati al mattino presto, la piazza è un immenso casino logistico pieno di bus, microvan e taxi provenienti da tutta la Valle. Se è fortunata riesce a vender tutto e ricavare una decina di euro.
La persecuzione dei venditori di strada iniziò nel 1990 quando furono obbligati a concentrarsi al Hong Kong Bazar, poi l’attenzione dei governanti riprese nel 2008 (con scontri e manifestazione di protesta) quando furono relegati a Kula Manch, un formicaio di banchi, coperti da teli di plastica che trasformavano il tutto in una sauna puzzolente. Infine il divieto di vendere prima delle ore 17. Nessuno di questi esperimenti ha funzionato, la gente vuole sopravvivere e cerca di vendere quello che può nelle strade, in rifacimento del centro, o negli affollati chowk lungo Ring Road a Sundhara, a Baneshwor (per vendere agli impiegati), a Kalanki (per quelli che arrivano da fuori), a Balaju o a Chabahil (per i pellegrini che vanno a Boudha o a Pashupatinath).
Giustamente molti si chiedono perché rompere i marroni ai venditori quando non c’è lavoro, migrano oltre 200.000 giovani all’anno (870 morti nei paesi di destinazione nel 2012), e il PIL crescerà solo del 3,8% nel 2013 (il più basso dell’Asia) a causa dell’assenza della politica e del negativo raccolto agricolo. Una crescita insufficiente a garantire nuova occupazione.La risposta sembra essere che quando lo stato funziona male è più facile prendersela con i poveracci. Anche in Nepal ci sono i milionari, le banche che finanziano gli amici di potenti, le attività illecite protette dal potere. Anche in Nepal la ricchezza si è concentrata ed il problema, qui come ovunque, non è tanto parlare di povertà (ormai trasversale nei paesi più ricchi e in quelli di nuovo sviluppo) ma d’ineguaglianze, di ridistribuire il reddito, di giustizia economica. Non l’hanno ancora capito i burocrati dell’industria dell’assistenza che continuano a parlare di lotta alla povertà che richiama carità e donazioni per salvare, solo, la coscienza.
Secondo l’indice Gini (che misura le differenze di reddito) la disuguaglianza in Nepal è aumentata di oltre 13 punti nell’ultimo decennio. Il 41% del reddito è in mano al 10% della popolazione, il 10% dei nepalesi più poveri si spartisce il 2,6% del reddito prodotto dal paese. Il 25,2% della popolazione (in crescita) guadagna euro 0,30 al giorno. (Nepal Life Standard Survey III, pubblicato recentemente). Queste riflessioni mi sono venute in mente grazie al libro di Branko Milanovic (Chi ha e chi non ha, Il Mulino), da cui salta fuori che i redditi erano distribuiti più equamente durante l’Impero romano. Non solo in Nepal.