L’obiezione di coscienza viene qui presentata addirittura come garanzia della laicità in quei casi che non sono conciliabili nonostante i tentativi che l’«alta arte del compromesso», sale della democrazia, impone. Gli esempi citati tra parentesi sono emblematici: la manipolabilità dell’embrione e la praticabilità dell’aborto. Soffermiamoci sul secondo.
In cosa consisterebbe, a proposito dell’aborto, l’obiezione di coscienza? A rigor di logica la risposta dovrebbe essere: io posso invocare l’obiezione di coscienza se lo Stato mi volesse obbligare ad abortire. L’obiezione di coscienza è infatti eminentemente legata ad un obbligo: nasce come rifiuto dell’obbligo di imbracciare le armi e, fino alla promulgazione della legge che l’ha regolamentata, essa era equiparata alla renitenza alla leva e alla diserzione e gli obiettori andavano incontro a pesantissime conseguenze penali.
Nel caso dell’aborto però – come anche della distribuzione di anticoncezionali – l’obiezione di coscienza viene invocata non in relazione ad un inesistente obbligo «ad abortire», ma nei confronti di medici ginecologi che avrebbero il diritto di rifiutarsi di «far abortire», ossia di praticare l’interruzione di gravidanza su una donna che l’abbia liberamente scelta. Si impone qui una distinzione cruciale tra il fare in prima persona qualcosa e il consentire ad altri di fare. Sono infinite le nostre azioni, dalle più piccole e insignificanti alle più fondamentali, che non potremmo compiere se non ci fosse qualcun altro che – con le sue competenze, con i suoi strumenti, con la sua esperienza – ci metta nelle condizioni di compierle. E se chi detiene quello che è un vero e proprio potere si rifiuta di mettere a disposizione le sue competenze per consentire a qualcun altro di compiere una determinata azione (perfettamente lecita) nei fatti sta ledendo il diritto di quest’ultimo di compiere quell’azione.
Fare il medico non è un obbligo, e men che meno fare il medico ginecologo. E tanto basta per abolire come del tutto impoprio l’uso dell’espressione «obiezione di coscienza» a proposito dell’aborto, che si configura semplicemente come una delle prestazioni che il medico ginecologo ha l’obbligo di somministrare, nei termini della legge. La stessa cosa vale nei confronti dei farmacisti che si rifiutano di vendere i farmaci anticoncezionali. Il lavoro che ciascuno di noi si sceglie è allo stesso tempo una scelta di vita per noi e un servizio per gli altri. Se penso che quella professione comporta degli obblighi che contrastano con i miei princìpi, semplicemente scelgo di non farla. Non avrebbe alcun senso, oggi che la leva non è più obbligatoria, che un militare invocasse l’obiezione di coscienza. Semplicemente, chi rifiuta le armi, sceglie altri mestieri – e magari si impegna in organizzazioni pacifiste per bandire gli eserciti. Il cameriere vegetariano che si rifiuti di servire carne in una trattoria verrebbe semplicemente licenziato: che andasse a lavorare in un ristorante vegetariano. I testimoni di Geova rifiutano le trasfusioni di sangue: liberissimi di farlo su di sé. Ma cosa succederebbe se un medico testimone di Geova si rifiutasse di praticare le trasfusioni ai pazienti? Avendo un bambino piccolo, mi sono imbattuta in accese e molto serie discussioni sulla opportunità o meno di vaccinare i bambini: cosa succederebbe se un farmacista convinto (in completa buona fede) che i vaccini non debbano essere fatti si rifiutasse di venderli? In fondo, questo farmacista è convinto che i vaccini potrebbero causare delle gravissime malformazioni ai bambini, le sue ragioni appaiono dunque fondate e persino «altruistiche». E gli esempi potrebbero moltiplicarsi.
La possibilità per i ginecologi di rifiutarsi di praticare gli aborti era stata giustamente prevista
nella legge che finalmente regolamentava l’aborto (la 194 del 1978): chi era diventato ginecologo prima dell’entrata in vigore di quella legge non aveva tra le proprie mansioni l’aborto (anche se molti lo praticavano, con lauti compensi, in nero). Ma oggi è completamente priva di senso. E altamente lesiva dei diritti delle donne, visto l’altissimo numero di «disertori», come correttamente andrebbero chiamati.
Vi siete mai chiesti perché non si pone il problema dell’obiezione di coscienza per gli avvocati a proposito del divorzio? Per due ragioni: la prima, di buon senso, è che un avvocato può specializzarsi in molti ambiti (proprio come il medico!) e dunque, se vuole, può scegliere di non occuparsi di divorzi così come un medico che non vuole praticare aborti può benissimo scegliere tra decine di altre specializzazioni. Ma temo che la ragione largamente più diffusa sia che i divorzi fanno guadagnare un sacco di soldi. Mentre gli aborti sono persino un ostacolo alla carriera.
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