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L’Italia ha una soluzione sui migranti (ma non viene dal governo)

Creato il 24 giugno 2015 da Danemblog @danemblog
(Pubblicato su Formiche)
Trasformare Pianosa in un centro di accoglienza internazionale per identificare i migranti e poi distribuirli tra i vari Paesi membri dell’Unione Europea. L‘idea è uscita qualche giorno fa dalle pagine del Foglio, il quotidiano fondato da Giuliano Ferrara e diretto da Claudio Cerasa (e non è per niente male, ma questa è una considerazione personale), riprendendo la proposta di qualche mese fa di Massimo Nava, editorialista del Corriere della Sera ─ che aveva suscitato reazioni per lo più negative.
Una specie di «Ellis Island italiana» (cit. Nicoletta Tiliacos) ─ Ellis Island è un isolotto newyorkese alla foce del fiume Hudson, che per anni ha rappresentato il principale punto di ingresso per gli immigrati. Pianosa è un’isola del Tirreno poco a sudovest dell’Elba, che è stata il suolo di un famoso carcere definitivamente dismesso nel 2011. È praticamente disabitata, e questa sembra essere una condizione ottimale alla funzione ─ migliore, per esempio, della Maddalena, dove si potrebbero sfruttare le strutture create per il G8 del 2009, trasferito poi all’ultimo minuto a L’Aquila post-terremoto.
Usare Pianosa come centro di soccorso, raccolta, accertamento e smistamento dei profughi, rappresenta esplicitare quello che di fatto sta succedendo: l’Italia si prenderebbe carico del problema quasi per intero in modo ufficiale. Ci sono dei presupposti, però. Il primo è rammodernare le strutture e rendere fruibili ─ pochi giorni fa girava la notizia che l’isola era infestata dalla zecche ─ e secondo garantire un’efficienza amministrativa, non solo italiana ma dell’intera UE, che sia da garanzia che la permanenza nell’ex istituto detentivo per l’accertamento dei termini per lo status di rifugiato, non duri più di poche settimane. Altrimenti, il rischio, dietro l’angolo, è che l’appoggio di Pianosa diventi una cosa disumana ─ e l’evocazione della valenza simbolica negativa di Ellis Island sarebbe uno zuccherino a confronto.
Tutto questo ha come premessa la prassi classica che caratterizza gli sbarchi. I migranti che arrivano in Italia, molto spesso rifiutano la fotosegnalazione per evitare di finire sotto il protocollo degli accordi di Dublino, e cioè restare nel primo paese su cui si è toccata terra dell’UE e si è stati riconosciuti, per poi richiedere asilo lì e solo lì. Questo perché la maggior parte delle persone che arrivano in Italia, non vuole l’Italia come meta finale del proprio viaggio. E siccome la polizia non può fermarli e prenderne le generalità in modo coatto ─ per ricordare, i migranti non sono delinquenti, sono gente che scappa da guerre e persecuzioni, per questo poi ottengono lo status di rifugiati ─, il nostro Paese ha una percezione solo parziale di chi sono le persone che scendono da quei barconi. Molti di questi, poi, una volta ricevuti i primi soccorsi scappano, fuggono per continuare il proprio viaggio clandestino ─ che spesso finisce sulle linee di organizzazioni criminali di stanza in Italia che permettono ai profughi di raggiungere il nord Europa, che di solito è la meta preferita.
Da notare, che questa circolazione verso il nord è libera e garantita dagli accordi di Schengen ─ che garantiscono il libero transito tra gli stati UE, senza la necessità di controlli doganali. La Francia, per esempio, nella questione di Ventimiglia ha sospeso di fatto sia gli accordi di Schengen che quelli di Dublino. Il primo perché ha chiuso le frontiere a controlli continuativi, proibiti dal trattato che invece prevede soltanto controlli a campione: poi, impedendo ai rifugiati che arrivavano dalla Liguria di entrare e farsi fotosegnalare dalle autorità francesi (e dunque poter chiedere asilo in Francia), ha di fatto sospeso pure “Dublino”.
L’utilizzo di un hub unico come potrebbe essere quello di Pianosa, permetterebbe un’enorme facilitazione, evitando fughe e garantendo controlli migliori che permetterebbero di identificare chi veramente ha diritto di chiedere asilo politico, al quale va fornito sostegno in Italia, e chi invece deve essere rimpatriato. «Un modus operandi per accogliere con umanità chi scappa da guerre e persecuzioni, ma senza dimenticare che dobbiamo garantire anche sicurezza e legalità ai cittadini», ha commentato al Foglio il sostituto commissario Carlo Parini, coordinatore del Gicic, il Gruppo interforze per il contrasto all’immigrazione clandestina.
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Ipotesi e idee a parte, in questi giorni inizia Eunavfor Med, l’operazione UE studiata dall’Alto rappresentante per gli Affari Esteri Federica Mogherini; si tratta della missione che prevede azioni militari contro gli scafisti mirate a distruggere le imbarcazioni (quando sono vuote, è bene ricordarlo) e magari anche gli appoggi logistici. Sotto il comando romano del Centro operativo interforze, saranno impegnate cinque navi, due sottomarini, tre aerei da ricognizione, due droni e tre elicotteri di 12 Paesi europei (tra cui ovviamente l’Italia), con un costo previsto di 11,82 miliardi di euro per i primi due mesi ─ è in previsione la durata di un anno.
Tra le imbarcazioni impiegate ci sarà l’inglese “Hms Enterprise“, nave da guerra della Royal Navy che ha già partecipato in operazioni di “search-and-destroy” contro i pirati nel golfo di Aden e in Somalia. Ma contemporaneamente all’annuncio del dispiegamento del vascello multiruolo, è stato comunicato l’imminente ritiro dalle acque del Mediterraneo della “Hms Bulwark”, nave da sbarco che può trasportare fino a mille persone ─ contro le 142 della “Enterprise” ─ e che è stata protagonista del salvataggio di circa tremila migranti durante la sua missione “sudeuopea”. Il messaggio è chiaro. In pratica Londra dice che se si tratta di distruggere i barconi e combattere gli scafisti si può contare sulla loro forza di fuoco qualificata, ma a soccorrere i profughi (e dunque fornire loro anche l’opportunità di applicare “Dublino”) devono essere gli altri a farlo ─ qualche tempo fa un account fake di Matteo Renzi, @RenzoMattei, ironizzava: «Cameron mi ha detto che al limite è disposto ad aiutarci a casa nostra»; è una boutade, ma in fondo non è troppo lontano dalla linea ufficiale.
Oltre che sulla poca chiarezza sul chi deve occuparsi di salvare queste persone alla deriva (i soliti, cioè l’Italia, la Grecia e Malta, a quanto pare), l’operazione militare UE Eunavfor ha anche un altro problema. Per il momento si svolgere esclusivamente in acque internazionali, cioè al largo, dove sarà complicato prendere i trafficanti di uomini e affondare i barconi, visto che questi potrebbero essere presumibilmente pieni. E martedì lo pseudo-governo di Tobruk, uno dei due esecutivi libici in guerra (è ormai consolidato che la Libia è il punto di partenza e di organizzazione dei contrabbandieri), ha fatto sapere che considererà violazione dei propri confini l’ingresso di imbarcazioni militari UE nelle proprie acque, e sarà pronto a rispondere con i caccia a queste azioni. Una sparata più che altro, solo che serve per capire che ancora non c’è nemmeno l’intesa di collaborazione con i libici, che secondo Mogherini era uno dei punti chiave del piano.

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