Ritorna la rubrica DISOCCUPATI VITE IN PARALLELO…vi lascio alla storia di Francesca e poi ne parliamo….
Ho 34 anni, sono architetto laureata in corso. Due mesi dopo la laurea, inizio a lavorare in nero, a 600 euro mensili per fare minimo 40 ore a settimana, dovendomi dare malata i giorni di Natale e Santo Stefano per non andare in ufficio dalla mia titolare, la quale era alcolizzata, non si faceva mai vedere (tanto abitava sopra l’ufficio) e si limitava a firmare le cose che IO facevo.
Dopo 9 mesi mollo e trovo subito altrove, apparentemente meglio: 1200 lordi al mese, partita iva ma orario rigido dalle 8 alle 18, straordinari, contributi, malattia non pagati. Per me è lo stesso una favola, finalmente lavoro e posso imparare. Dopo un anno tuttavia l’atmosfera in studio è molto pesante: in quanto unica donna oltre alla segretaria, non vengo mai portata in cantiere, ci vanno solo l’altro arhcitetto, il titolare e il nipote geometra del titolare, che poi mi passano i dati da elaborare nei progetti.
Le sfuriate sono all’ordine del giorno, le differenze di trattamento pure (l’altro architetto arriva sempre con mezzora di ritardo pur abitando a 4 km dallo studio, io devo farmi 45 minuti di viaggio ogni giorno, lasciare l’auto, andare a piedi a prendere i mezzi, farmi ancora 2 km a piedi per arrivare in ufficio che è in zona a traffico limitato e vengo duramente ripresa quando capita raramente che tradi di 5 minuti per il ritardo del bus). E’ un crescendo, fino a che un giorno il geometra straccia un disegno fatto da me e con alcuni errori dovuti a sua imprecisione ma che ovviamente diventano colpa mia, e mi scaglia addosso il contenuto di un porta penne. Io mi alzo, consegno le chiavi alla segretaria e me ne vado per non tornare mai più. Passa un mese e trovo lavoro presso un architetto solo, va tutto benissimo, purtroppo dopo 6 mesi chiude l’attività per andare in pensione e per mancanza di lavoro. Tempo tre mesi, e trovo: responsabile dell’ufficio tecnico interno di una grossa società!! FANTASTICO!! Di seguito, la mie peripezie a partire dall’anno successivo.
Nel 2009 -quando lavoravo con un contratto di consulenza ricoprendo un incarico di responsabilità per una società per la quale tuttavia pur avendo la partita iva avevo il cartellino da timbrare ed ero a disposizione in ufficio tutto il giorno tutti i giorni per un full time effettivo ma senza ferie, malattie, contributi, assicurazione pagati- resto incinta; pur avendo una gravidanza a rischio a partire dal quinto mese (e infatti mio figlio è nato prematuro a dicembre 2009) continuo ad andare al lavoro sobbarcandomi quotidianamente un centinaio di chilometri fra raggiungimento del posto di lavoro e gestione dei cantieri nonchè dei rapporti con la Pubblica Amministrazione del luogo: non avevo scelta, da un lato la gravidanza a rischio per chi non è dipendente non è retribuita, dall’altro temevo di perdere il lavoro; mi rassicurava che l’AD a cui io facevo riferimento mi avesse garantito massima flessibilità in risposta alla mia disponibilità -eccessiva, mi rendo conto a posteriori- al punto che quando verso il settimo mese le mie condizioni si sono aggravate ho chiesto e ottenuto di recarmi in ufficio due giorni a settimana e di lavorare da casa tramite un collegamento FTP al server aziendale, poichè la maggior parte del mio lavoro richiede esclusivamente il possesso di un computer e poichè essendo l’unico tecnico della società non dovevo interagire con nessun’altra figura ma rendevo conto solo a me del mio operato, che gestivo integralmente svolgendo mansioni di segretaria/disegnatrice/progettista/commerciale.
Fino alla settimana prima del parto ho dunque continuato a lavorare e a presentarmi in ufficio; apro qui una parentesi: onde evitare di lasciare scoperte le mie pratiche edilizie, mettendo in difficoltà la società, avevo concordato con l’AD di trovare un sostituto che mi coprisse nel periodo di maternità per l’ultimo mese di gravidanza e i primi due mesi di vita di mio figlio. Gli accordi erano che per il primo mese io non sarei stata contattata se non per questioni puramente logistiche come ad esempio indicare in che cartella del server erano salvati i files, che il secondo mese in caso di bisogno io avrei supervisionato il sostituto un paio di volte a settimana e che al principiare del terzo mese sarei tornata in ufficio. Apro una piccola parentesi di cui avrei dovuto accorgermi all’epoca: pur avendo ottimi rapporti con le altre dipendenti degli altri uffici e con il titolare, quando nacque mio figlio non ricevetti nemmeno una telefonata o un bigliettino da nessuno di loro.
In realtà le cose hanno preso una direzione differente: al mio sostituto sono stati dati lavori nuovi anzichè quelli vecchi che giocoforza io avevo lasciato in sospeso, e infatti a dieci giorni dal parto mi sono state fatte pressioni psicologiche affinchè io riprendessi “urgentemente” a lavorare. Da casa, certo, ma comunque dovevo fare i conti con un bimbo prematuro che richiedeva costante assistenza e che stava a malapena un’ora senza poppare dovendo io allattarlo con intervalli frequentissimi, avendo inoltre i miei genitori che ancora lavorano e un marito con all’epoca un contratto a termine che non prevedeva congedo parentale.
Io ho accettato fra crisi e sensi di colpa perchè speravo in tal modo di mantenere l’incarico. A febbraio 2010 concordai con l’AD che avrei ripreso il lavoro l’8 marzo (SIC!) ma un paio di giorni prima la segretaria mi mandò una mail in cui mi si imponeva di NON tornare; alla mia telefonata di richiesta spiegazioni mi fu risposto vagamente che si stavano organizzando e che dopo un paio di settimane sarei stata contattata per stabilire le condizioni del mio rientro; inutile dire che fui io a dover chiamare nuovamente per sentirmi dare la medesima risposta unita al rifiuto da parte dell’AD di incontrarmi: questo teatrino umiliante si protrasse fino a giugno, costellato di mie settimanali chiamate finchè non desistetti quando mi si ingiunse di non chiamare più e di “aspettare”.
Ho cercato lavoro ma i miei cv venivano rifiutati in quanto “sono troppo qualificata” oppure perchè ho un figlio: in ben due casi i colloqui andarono bene e mi venne chiesta disponiblità immediata per cominciare, ma quando al momento dei saluti mi venne chiesto se avevo figli improvvisamente da “ci vediamo lunedì” il saluto si trasformò in “ah.. le faremo sapere”.
Per gli architetti (parlo di questa categoria perchè è una realtà che conosco bene) l’unico modo per lavorare è di accettare di andare per 40-50 ore settimanali in uno studio come collaboratori, pagati quando va bene mille euro lordi (questo se si ha esperienza di almeno cinque anni) senza ferie, malattie, contributi, assicurazione, tutele; quando va male, e cioè nella quasi totalità dei casi, il compenso prevede giusto un rimborso spese e per tale motivo ormai gli studi cercano solo neolaureati che non chiedono retribuzione; noi sulla trentina ormai siamo fuori mercato, troppo titolati, troppo esperti, troppo consci del nostro valore.
Io sono rimasta senza reddito, la mia cassa previdenziale Inarcassa mi ha saldato a maggio 2010, quando mio figlio aveva quasi 6 mesi, 900 euro lordi al mese per cinque mesi di maternità (sì, perchè danno i 5/12 dell’80% del reddito percepito due anni prima del parto: praticamente noi donne architetti o ingegneri dobbiamo programmare la gravidanza a tavolino vedendo alla fine di ogni anno quanto abbiamo incassato, e se è una cifra dignitosa possiamo mettere in cantiere la prole in modo che nasca due anni dopo) e basta; non ho diritto alla disoccupazione e pago uno sproposito di irpef e di contributi perchè, essendo autonoma, sono automaticamente iscritta nel novero degli evasori fiscali straricchi.
A luglio 2010, stanca di non ottenere riscontri e contradditori da coloro per i quali avevo lavorato, mi sono rivolta alla Consigliera di Parità della Provincia di Brescia, che garantisce patrocinio gratuito nei casi di discriminazioni lavorative di genere, quindi soprattutto in caso di maternità. A gennaio 2012 è stata fissata l’udienza, durante la quale la richiesta di indennizzo è stata respinta fissando di lì a un mese una nuova seduta col giudice. Quel mese è stato per me talmente mortificante e ansiogeno, stavo talmente male ed ero divorata dal terrore di perdere grazie alla nuova legge che escludeva gli iscritti a un Albo professionale dal ricorso in cause di lavoro per il riconoscimento della subordinazione, che ho accettato un risarcimento ridicolo. Nel frattempo, la mia ricerca di lavoro è vana: sono troppo vecchia (dopo i trentanni non si possono fare convienienti contratti di apprendistato), sono troppo qualificata (quindi mi si dovrebbe pagare il giusto), ho un figlio (quindi uno di troppo per essere considerata affidabile). A fine 2013 ho chiuso la partita iva dopo un anno senza emettere nemmeno una fattura perchè non potevo continuare a pagare i 3.000 euro obbligatori richiestimi dalla casse. Sono iscritta al collocamento mirato in quanto categoria protetta ma non mi hanno mai chiamato in 4 anni, rispondo a tutti gli annunci possibili, anche fuori dal mio stetore, ma non ho MAI avuto una risposta: grazie a tutte le riforme schifose del lavoro che agevolano solo gli esodati, quelli con meno di 28 anni, le aziende.
SONO INCAZZATA…LEGGENDO QUESTA STORIA è UN CRESCENDO DI BESTEMMIE…contro chi discrimina, contro chi sfrutta…contro chi ignora..contro tutto ciò…è assurdo leggere questo…è assurdo pensare che sia accaduto davvero. NON è POSSIBILE pensare di vivere in un Paese che genera ciò.
Grazie a Francesca per averci scritto la Sua stroria…e spero per Lei che le cose un giorno possano quantomeno migliorare un pò. Un abbraccio virtuale da LaDisoccupazioneIngegna (per quanto possa servire)
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