di Francesco Sasso
La narrativa di Antonio Pizzuto (Palermo, 1893 – Roma, 1973) è complessa e, credo, senza un vasto pubblico di lettori. Gran merito, quindi, l’aver ripubblicato Testamento (Polistampa 2009).
In quest’opera, Pizzuto realizza una sistematica e radicale demolizione degli istituti del romanzo tradizionale. Lo scrittore siciliano sottopone ad una impietosa dissacrazione lo statuto conoscitivo della tradizione romanzesca, adottando un sincretismo linguistico in cui il vocabolario della comunicazione si mescola a un lessico raffinato, limpido, e a filamenti di idiomi stranieri o neologismi. In Testamento il personaggio è abolito, mentre la struttura è formato da venti “lasse” che, insistendo sulla scansione atemporale della parola, fonde il flusso verbale con l’annotazione dei moti di vita.
«La svolta ‘indeterministica’ è sostenuta, sul piano sintattico, dalla rinuncia ai tempi finiti del verbo […] il sempre più frequente ricorso al gerundivo […] da un incremento dell’attività neologistica […] la comparsa del punto in alto alla greca. […] Sul versante dei contenuti, l’aspirazione all’”universalità” si traduce invece in una cospicua presenza di riflessioni filosofiche, non più affidate, come in precedenza, a fulminee incursioni di natura per lo più ironica, ma offerte in enunciazioni più distese e analitiche» (dal Commento di Antonio Pane, pag.118)
Fondamentale quindi il poderoso e indispensabile Commento di Antonio Pane. Per capire la portata del lavoro di Pane, dobbiamo pensare che su un totale di 303 pagine, 110 sono occupate da Testamento, mentre 200 pagine circa dal Commento di Antonio Pane.
«Il commento», come scrive legittimamente il curatore, «vuole appunto contribuire alla descrizione di un’opera la cui opacità è caparbiamente perseguita in nome di una poetica che pretende di coniugare un massimo di precisione con un massimo di flessibilità, convocando designazioni tanto esatte quanto capaci di “dinamismo espansivo”. […] la prima necessità è di restituire, per quanto possibili, le coordinate spazio-temporali, i riferimenti biografici, i risvolti affettivi, perché, come riconobbe Contini, le scritture di Pizzuto non sono “atteggiamenti dell’Io, ma lacerti della memoria circa eventi storici» (pag. 119-120).
La oscurità di quest’opera è una oscurità di principio. Già Baudelaire scriveva «C’è una certa gloria nel non essere compresi». In Testamento, la magia della parola traduce in vibrazione le zone di mistero dei concetti e della vita. Una lettura difficile, certo, che determina uno choc, provoca smarrimento. Tuttavia, la gioia di assaporare lentamente la parola di Pizzuto è incomparabile.
f.s.