2009: District 9 di Neill Blomkamp
Viene dalla Nuova Zelanda «il film sorpresa» della scorsa stagione.
“Non piacerà a Bossi il messaggio dell’originale film prodotto da Peter Jackson, però nell’America di Obama botteghino e critica sono stati ottimi” scrive Alessandra Levantesi su La Stampa.
Finalmente effetti speciali, azione adrenalinica, ritmo frenetico… non fini a se stessi ma al servizio di un contenuto… e che contenuto: la denuncia della xenofobia oggi sempre più dilagante e della segregazione razziale di cui tanti popoli «civili» continuano a macchiarsi. Interpretare il tutto in chiave fantascientifica è l’idea geniale degli sceneggiatori Neill Blomkamp (qui anche regista) e Terri Tatchell che vincono la scommessa di realizzare un prodotto che non può non soddisfare quanti dal cinema vogliono grande spettacolo e quanti pretendono che il cervello non sia messo a letargo. District 9 non concede un attimo di respiro: tensione ed emozioni al massimo livello, mai una pausa o una digressione o un rallentamento… ma non ci si accontenta di questo. Il film fa riflettere su una delle piaghe del mondo attuale e invita lo spettatore a interrogarsi sulla scia pericolosa che il mondo occidentale sta perseguendo, ottusamente ed egoisticamente, per difendere i propri interessi, i propri privilegi: un mondo “che esporta democrazia e poi rimane senza per se stesso” (Liberazione).
District 9 è un lavoro importante per il «messaggio» che contiene ma lo è anche dal punto di vista formale. Osserva giustamente Gabriele Niola: il film è “un finto documentario, riprese con camera a mano e frenetici cambi di ritmo come si trattasse di un combat film, allinea sequenze che mischiano senza una logica extra-filmica inquadrature tradizionali con punti di vista di videocamere a circuito chiuso o amatoriali fino a giungere ad uno stile che non si cura di dare una gerarchia tra le forme di produzione audiovisuali. Le videocamere amatoriali come quelle professionali, i telefonini come le videocamere di sicurezza, tutto già contribuisce al racconto della realtà moderna che il cinema se ne accorga o meno. In District 9 questo modo di vedere e far vedere le cose diventa stile e al tempo stesso accettazione del fatto che la macchina da presa classica non è più al centro del linguaggio audio visuale”.
Un film (“dove non smettiamo un momento di divertirci e pensare”, Il Messaggero) da vedere, di strettissima attualità: imperdibile per comprendere i tempi che viviamo.
Da approvare in pieno quanto scrive Boris Sollazzo: “Fatevi un giro sui social network, andate in autobus, oppure fermatevi in Parlamento e scoprirete come una cappa di razzismo, sempre più tollerato e fomentato, ci stia distruggendo. L’odio per il diverso, che lo sia per identità sessuale o colore della pelle, ormai è diventato un valore. Ecco perché un film come District 9 è un pugno in faccia salutare…”.
Bravissimo, in un ruolo non certo facile, Sharlto Copley.
p.s.
District 6 era il nome della baraccopoli riservata ai “negri” durante l’apartheid in Sudafrica.