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Ditta Dante & Figli: Via dalla pazza folla

Da Leragazze
Ditta Dante & Figli: Via dalla pazza folla
nella selva oscura del qualunquismo

A un’occhiata superficiale,  le interpretazioni che Jacopo dà dei versi paterni sono le solite allegorie medievali: i serpenti significano i pensieri inquieti, Gerione ha una coda a due punte perché il peccato che raffigura è di due tipi, eccetera ecceterone.

Questa lettura però sottovaluta troppo il fatto che nel Due-Trecento la cultura europea e mediterranea aveva raggiunto un grado molto elevato di raffinatezza intellettuale, in tutte e tre le principali componenti socio-religiose: cristiani, ebrei e musulmani (i quali all’epoca erano assai più progressisti di oggi, tra parentesi).

Perciò, di fronte ad allegorie di questo tipo, la domanda più pertinente non è: “Come gli è saltato in mente?” ma: “Dove vuole arrivare? Cosa vuole farci scoprire?”

Esaminando più da vicino le Chiose di Jacopo, balzano anzitutto all’occhio alcune singole intuizioni folgoranti. Ad esempio, la selva oscura non significa affatto “il peccato”, come si insegna a scuola, ma la “massa vegetale” delle persone rimbecillite dall’ignoranza, gente senza ambizioni, senza nessuno scatto per migliorarsi. Perciò Dante non vuole uscire dalla selva perché si sta pentendo di chissà quali peccati commessi, ma perché vuole evolversi, maturare, diventare “uomo perfetto”. Un’idea completamente in linea con l’antropologia contenuta nel Convivio.

In secondo luogo, colpisce un aspetto più generale, che definirei spersonalizzazione. Nei commenti moderni alla Divina Commedia si sottolinea l’ego titanico di Dante, protagonista assoluto del poema, creatore del mito di se stesso. In Jacopo, tutto il contrario: il nome del protagonista quasi scompare, la maggioranza dei verbi sono costruiti con il “si” impersonale. Dante si discioglie all’interno della trama del poema.

Anche le spiegazioni delle Chiose sui vari personaggi incontrati (chi erano Paolo e Francesca… chi era Farinata degli Uberti…) restano tendenzialmente sobrie, fuggevoli, senza sensazionalismi, né tantomeno moralismi. Jacopo elenca crimini e misfatti con distacco da cronista vecchio stile, senza “fremere di sdegno”. C’est la vie.

E questo porta all’ultima, fondamentale rivelazione. Dante – ci informa suo figlio – non voleva far bere a nessuno di aver compiuto un viaggio nell’oltretomba. Ciò che descrive è QUESTO mondo, con i suoi fenomeni, le sue dinamiche, le sue tensioni. Ci sono persone in preda ai vizi, e Dante prende in considerazione questa condizione umana “chiamandola inferno”. C’è poi la condizione di chi aspira alla virtù, e il poeta la “considera (…) chiamandola purgatorio”. E c’è  la “terza e ultima”, ossia quella “degli uomini perfetti”, che Dante definisce “paradiso”.

Già, ma chi sono i perfetti? Purtroppo le Chiose, le Chiavi di interpretazione, si sono interrotte a un terzo dell’opera. Forse però la risposta la si intravede in quanto già detto: spersonalizzazione, immanentismo. Non a caso, qua e là nel testo sbuca l’espressione “la Natura, cioè Idio”. Jacopo Alighieri presenta suo padre come un antesignano di Baruch Spinoza. O meglio, il pensiero di Spinoza è il frutto maturo di un processo cominciato con la filosofia e teologia tardo-medievali.

Il perfetto è colui che si identifica / si annienta / si realizza nel cosmo.

“Ma già volgeva il mio disio e ’l velle,

sì come rota ch’igualmente è mossa,

l’Amor che move il sole e l’altre stelle”.

dhr

Con questo post termina la mini serie su Jacopo e Dante. Le due puntate precedenti le trovate qui e qui. Ancora grazie a dhr.



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