Ora prendete lo stesso debito (18 miliardi) e collocatelo all'interno dei cittadini italiani. Poco importa che essi siano contribuenti, risparmiatori, imprenditori o pensionati: rientrano sempre nella definizione di "sudditi". Quindi, facciamo che il debito dello stato sia un credito dei suoi "sudditi". Ad un certo punto della storia, arriva la Corte Costituzionale e dice che lo stato, avendo posto in essere delle pratiche in violazione dei disposti costituzionali e, quindi, lesiva dei diritti dei suoi cittadini, deve rifondere i suoi sudditi di qualcosa precedentemente e illegittimamente negato. Lo Stato, in virtù del suo potere coercitivo che, in questo caso, si sostanzia nella facoltà (anche se illegittima) di imporre la sua autorità comprimendo diritti altrui, o, più in generale, in quello trattenere ricchezza altrui nelle forme e con metodi più fantasiosi possibili (tasse, espropriazioni, imposte patrimoniali di ogni genere ecc ecc), decida di pagare solo 2 miliardi di euro sui 18 dovuti, in quanto privo della possibilità di rifondere completamente il maltolto. Al netto del prevedibile esito di una decisione del genere che, verosimilmente, determinerà una valga di ricorsi -con il rischio che, tra qualche tempo, ci si troverà al punto di partenza- trovo che un fatto del genere non sia troppo distante dalla definizione classica di bancarotta, stante, appunto, l'oggettiva impossibilità di adempiere interamente ad una obbligazione derivante peraltro da una condanna. Certo, in questo caso non si assisterà ad un aumento dello spread o alla perdita della possibilità di accedere ai mercati o a tutte quelle conseguenze che si determinano nel caso di default classico. Ma ciò non toglie che l'Italia sia inadempiente, ossia, potremmo dire, diversamente fallita. Pochi giorni fa, in conferenza stampa, il governo ha annunciato che rimborserà appena due miliardi sui 18 dovuti. Visto che sono imminenti le prossime elezioni amministrative, hanno avuto il coraggio di chiamare l'operazione di rimborso con il nome di "BONUS POLETTI", ancorché si tratti di un adempimento parziale peraltro in virtù di una sentenza che condanna lo stato a rifondere i suo cittadini. E' evidente che definire in modo del tutto censurabile e inappropriato un adempimento al quale si è stati condannati, è un modo per carpire la buonafede di chi non è particolarmente informato sulla vicenda e che, tra dieci giorni, esprimerà un voto magari veicolato da questa vergognosa e indicibile propaganda elettorale. Poco fa, mentre stavo scrivendo questo post, sempre a proposito della sentenza della Consulta, da parte di un lettore del blog, ho ricevuto via email le considerazioni di seguito riportate, che mi sento di condividere e condividere con voi. Lascio quindi la parola a Marco Di Marco, che ringrazio per il suo contributo.
Non richiesto, vorrei trasmettere alcune considerazioni sulla querelle della sentenza della Corte Costituzionale riguardo alle pensioni. Non ho certezze, lo dico in premessa, ma mi fanno veramente paura le affermazioni che sento, sia di un segno che dell'altro.
Il logoro, perché abusato, termine “lesione dei Diritti Acquisiti”, anche a causa dell'uso elettoralisticamente spregiudicato che se ne fa, forse non rende bene l'idea. La definizione in questione rimanda automaticamente al concetto di “privilegio”, descrizione appropriata in molti casi ma non generalizzabile. Io parlerei piuttosto di “negazione di una promessa”.
So benissimo che a livello di risorse (che non ci sono) la sentenza della Corte è una iattura. So benissimo, altresì, che molte delle pensioni toccate dal problema sono sovrabbondanti rispetto ai contributi versati. So benissimo, infine, che alcune delle pensioni sono alte tout court, a prescindere dal sistema di calcolo. Ma so altrettanto bene che a livello sociale ed economico una delle ragioni di esistere di uno stato, forse la più importante, è quella di costituire un punto fermo, un riferimento (prima ancora di essere sanzionatorio) della civile convivenza. Lo dico da convinto liberale (non propriamente liberista). Sono dell'idea che uno stato debba fare molto meno di quello che il nostro fa. Ma quello che fa dev'essere cristallino, autorevole, non mutevole ogni 3x2. E soprattutto non retroattivo.
La “diligenza del buon padre di famiglia” è un concetto applicabile alla questione, specie nella originale accezione che ne davano i Romani (bonus pater familias). Un buon padre di famiglia romano, non diversamente da quello contemporaneo, può decidere di elargire una somma a un figlio. La somma può essere meritata (contributiva), in tutto o in parte non guadagnata (retributiva), esageratamente alta (d'oro), data troppo presto (baby) o troppo tardi (allungamento dei termini). Ma se e quando è data, va considerato che dovrà essere corrisposta anche a tutti gli altri figli (e sono tanti!) con gli stessi criteri. E, ancor più importante, un padre di famiglia che si rispetti non chiederà mai indietro parte della dazione. A costo di privarsi dell'essenziale, ma non lo farà. Ma il padre senza qualità idonee ad esercitare il suo ruolo, pasticcerà, senza memoria, e, senza una direttrice etica, morale, sociale ed economica/finanziaria a guidarlo, finirà per fare qualcosa di esiziale per se e per la progenie: perderà credibilità e la fiducia dei suoi figli.
Di questo dovrebbero tener conto tutti quelli che hanno certezze incrollabili, sia in un senso che in quello opposto. Vorrei solo sommessamente far notare che oltre al default economico ce n'è uno, a mio avviso, ancor più grave: il default della civiltà. Ci stiamo avvicinando pericolosamente ad entrambi.
PS- Né io né altri della mia famiglia siamo titolari di pensioni, né lo saremo a breve. Forse non lo saremo mai. E la mia vita lavorativa ha avuto come tutele la certezza di non averne. Giusto per far capire che il mio interesse sulla questione è solo ed esclusivamente relativo all'aspetto etico dello Stato, non pro domo mea, anzi.Firmato MdM (che ringrazio)