Galimberti, la cui opera non può certo essere accusata di clericalità, invitava a riflettere su come, in un'epoca in cui tutti sembrerebbero protesi a chiedere un qualche tipo di facilitazione al divorzio, forse ci si dovrebbe interrogare su come rendere difficile il matrimonio.
Cinque anni dopo quell'articolo, ecco dunque la legge sul divorzio breve.
Il legislatore ha voluto così prestare ascolto ai tanti sofferenti che, finiti nel gorgo della separazione, erano costretti ad aspettate almeno tre anni (salvo ricorsi in giudizio) prima di veder sciogliersi, sulle carte della burocrazia, quell'amore che, nella mente e nel corpo, si era dissolto da anni.
Opera meritevole, per carità, ma forse, come troppo spesso accade, evirata di quella profondità che Galimberti aveva provato a restituire e che, chi si occupa dell'amore con le sue crisi e i suoi rimedi, incontra tutti i giorni nel suo lavoro clinico.
Più volte in questo blog abbiamo sollecitato a riflettere, noi pure lontani da qualsivoglia immischiamento religioso, su come la gran parte delle persone che giungono in mediazione, presentino, fondamentalmente, il dilemma, tutto individuale, del non saper più come amare che spinge alla rieducazione, piuttosto che la certezza, più strettamente relazionale, del "Non ti amo più" che spinge alla separazione.
Non è differenza da poco. E non tanto perché non ci si possa separare, per quel che mi riguarda, anche al ritmo di un divorzio ogni due settimane; ma perché, come bene ci insegnano le culture tradizionali, ogni separazione, pur consapevole che sia, comporta costi sociali e individuali: sul piano relazionale, psicologico e, non ultimo, economico. Costi che non possono essere ignorati o ridotti a effetto collaterale, ma necessitano di essere disciplinati, anzitutto, sul piano di un corretto e costruttivo accesso alla conflittualità, capace di non trasformare ogni separazione in quella guerra senza confini cui, purtroppo, le cronache ci hanno abituato.
Ma, al di là di quelle separazioni che denunciano un amore effettivamente finito, ciò che ci preoccupa di questa insostenibile leggerezza del divorzio è, sulla scia di Galimberti, l'insostenibile leggerezza del matrimonio cui implicitamente rimanda; forti dell'esperienza clinica che ci vede ogni giorno confrontarci con coppie che credono di essere giunte al dramma della frutta quando, la vera tragedia, è che non hanno imparato a stare al tavolo che l'amore contemporaneo apparecchia o, peggio, non avrebbero nemmeno dovuto sedersi insieme (e, soprattutto, farci sedere figli e figlie).
Così, mentre un po' in ogni dove del vivere contemporaneo, l'escalation verso la civiltà sembrerebbe suggerire la strada della semplificazione, della facilitazione; per quel che concerne quell'amore che volge al costituzione di una famiglia, a maggiore ragione ora con il divorzio breve, crediamo sia necessario costruire una nuova cultura dell'amore coniugale, attraverso laici dispositivi di approccio alla vita a due e, più in generale, alla vita famigliare. Il che significa, non solo lavorare sulle emergenze delle coppie in crisi, ma anche lavorare affinché queste coppie giungano in mediazione prima che la crisi sia inevitabilmente volta alla sola possibilità della separazione e, sopra a tutto, lavorare affinché le nuove coppie che intendono coniugarsi arrivino al matrimonio con quella consapevolezza che augurava Pier Paolo Pasolini nel finale del suo "Comizi D'amore": «Al vostro amore si aggiunga la coscienza del vostro amore».