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Questa sfida, però, è andata oltre le forze del povero Tarantino. Il cinema western non è facile, soprattutto perché conteneva già in sé il proprio rovesciamento: accanto alla serietà di John Ford e di Sergio Leone, lo spaghetti western di Bud Spencer e Terrence Hill, per non parlare di Mezzogiorno e mezzo di fuoco di Mel Brooks, mostravano già l'evoluzione del cinema western, disinnescandone la violenza e annientando il mito americano ben al di là delle (meravigliose, va detto) scene del cinema fordiano.
Contenuto già nell'evoluzione della propria cinematografia, il compito del regista sarebbe stato di imitare fino in fondo quel cinema italiano che ama tanto. Questa volta, però, Tarantino non è stato Tarantino: non è riuscito a compiere quanto gli era richiesto, perché gli è mancato quello scatto che in altre sue grandi opere permetteva allo spettatore di ricomprendere la violenza all'interno di una sintesi più ampia, che la facesse propria e che la superasse.
Il film inizia con scene bellissime, che richiamano la recente fatica dei fratelli Coen, Il grinta, certamente un capolavoro al confronto dell'arlecchinata di Tarantino. In effetti Django non è altro che una collazione di scene diverse, come se la pellicola fosse stata fatta unendo testi giustapposti. La tensione si perde dietro a dialoghi inutili e privi di quella tensione a cui Pulp fiction ci aveva abituato; e la storia è sufficientemente noiosa per essere priva di senso: quando ci si aspetta l'evoluzione decisiva, questa non arriva. La delusione aumenta, perché manca quella valvola di sfogo: come se Tarantino potesse segnare il gol della vittoria, ma si rifiutasse di calciare a rete. Solo che questa volta non apre nuove parentesi, non infittisce la trama. Tutto è prevedibile e scontato, addirittura banale.
Il tema del razzismo è solo posticcio. Non ci aspetteremmo altro da Tarantino, tanto che la scena del Klan degli incappucciati, ridicolizzati e fatti secchi, è notevole. Tuttavia non ha quel mordente atteso: è solo divertente, non è imbarazzante. Tarantino non cala gli assi.
E così di seguito fino al finale. Addirittura l'incrocio tra la schiavitù afro-americana e la leggenda teutonica, forse la scena più bella del film, resta sospeso, come se fosse un nervo scoperto inutile e fuorviante. Ma non lo è, magari l'avesse portato al parossismo. In fin dei conti, questo Tarantino annacquato avremmo preferito non vederlo. Troppo banale, troppo ripetitivo, troppo semplice per essere Tarantio. Sorge il dubbio che voglia vincere l'Oscar con un film "semplice" e canonico, speriamo che ne sia valsa la pena. Sono troppi i temi che sfuggono e per un regista che si dà arie di genialità, questo non va bene. Tutta la violenza, infatti, resta incompiuta (e le scene ci sono e sono scabrose).
Il film è muto e incompleto. Il protagonista non si regge da solo, tanto che il vero protagonista è certamente Christoph Waltz (sempre, sempre, sempre uguale a se stesso!). Vere spanne sopra gli altri Leonardo di Caprio e il viscido Samuel L. Jackson, ma non si può vivere di sole macchiette.
La mia impressione è che lo stesso Tarantino si sia trovato dell'ottimo materiale tra le mani, senza capire fino in fondo che cosa fosse, senza sfruttarlo a pieno. Poteva, infatti, uscirgli un grande film, ma così non è stato.
E, infine, quella conclusione con la colonna sonora di Trinità, sinceramente, mi è parsa blasfema!
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