Ci sono fenomeni che non comprendo.
Lana Del Rey, Dolce & Gabbana, indumenti come il piumino.
A tutt’oggi non credo di afferrare pienamente la diffusa fascinazione per Quentin Tarantino.
O meglio, la comprensione dell’estetica vi è sempre stata, d’altronde solo un organismo unicellulare non vi arriverebbe, ma mai l’affezione. Anzi, ho lottato per anni per sviluppare un minimo di accettazione nei confronti del suo Cinema. Insomma, come sosteneva Truffaut riguardo la musica pop dei suoi tempi, queste note (immagini) parlano a così tante persone che ci deve pur essere in esse qualcosa di recuperabile, di valevole.
E di valevole c’è molto nella produzione Tarantiniana. Solo per citare grossolanamente, si pensi al merito di aver (ri)aperto gli occhi del grande pubblico alle meraviglie della produzione Godardiana, allo sguardo sempre così giocoso e divertito con cui il regista avviluppa ogni scena, alla capacità di aver restituito un po’ di stupefacente a questo cinema americano troppo spesso frusto ed esausto.
In una sorta di capriola autoreferenziale lo stile Tarantiniano, detournista e sincretico, citazionista allo stremo delle forze, parla della cultura pop, quella cultura che Fausto Colombo avrebbe definito ‘sottile’, usandone le forme e le matrici, rendendosi essa stessa oggetto, materia (pulp) di riflessione. Per rispolverare la metafora più inflazionata del vocabolario post-moderno: il riflesso rifrange la riflessione di/su se stesso.
E fin qui, niente che i giovani turchi della Nouvelle Vague o del New American Cinema non avessero già investigato. Ed è proprio questo il punto. Cosa vi è di nuovo o di inusitato nello stile Tarantiniano? Forse che la novità intima del fenomeno risieda nella scala della performance, nella grandeur della realizzazione, nella vastità dell’auditorio? La ‘rottura’ del cliché diventa norma e si pone come standard. I film di Tarantino non sono accolti come paria, nelle sue pellicole recitano le star, le sue produzioni vincono i premi dell’establishment.
È quindi comprensibile che per diversi l’avvento sulla scena di Quentin Tarantino abbia anche in un certo qual modo rappresentato il canto del cigno del cinema indipendente americano. Nel 1994 Pulp Fiction veniva nominato per sette Oscar e la Miramax, sino a poco prima casa indipendente antonomastica, era ormai de facto una compagnia Disney.
Molti detrattori vedono in Quentin Tarantino un subdolo trionfo della techne sull’ars, un monumento alla pigrizia programmatica. Come a dire insomma che sotto tutti questi omaggi al cinema di serie B, agli eroi meno cantati della celluloide, si celi non un amore fanciullesco per la settima arte, ma una ben più prosaica mancanza di talento, resa ulteriormente odiosa dalla latitanza di quell’urgenza morale e di quella vocazione ermeneutica che aveva per contro guidato l’opera di altri maestri, da Ray a Godard.
Personalmente ciò che mi ha sino ad oggi impedito un completo apprezzamento del progetto Tarantiniano non è l’accusa, forse ingenerosa, di parassitismo estetico, quando una difficoltà intrinseca a connettere sul piano empatico.
Un manipolo agguerrito di critici ritiene che l’ultraviolenza e il nichilismo degli eroi Tarantiniani siano in risonanza con lo spirito del tempo, con la Weltanschauung che il cineasta desidera rappresentare. Molto più modestamente, la mia disaffezione si origina dalla relativa inesistenza nel suo universo filmico di un Gefühlswelt, ovverosia di un mondo del sentire.
Per me Quentin Tarantino è spesso glaciale.
I personaggi e le storie rappresentate dal regista americano mi scuotono ma mai mi muovono. Ogni volta mi trovi di fronte ad un film di Quentin Tarantino, la sovrabbondanza della stimolazione sensoriale e intellettiva ammutolisce la partecipazione. Cosa m’importa se la sposa morrà o meno, se il cattivo verrà smembrato come giustamente merita, secondo un’assiologia spesso manichea quanto elementare?
Ho perseverato tetragona in questa mia convinzione per anni. Inglorious Basterds (2009) ha sollecitato qualcosa, ma è stata la recente visione di Django Unchained (2012) a mettermi definitivamente in crisi.
Soprattutto perché la pellicola in questione mi è piaciuta. Ecco. L’ho detto.
Django Unchained trae ispirazione dal personaggio e dallo stile del film diretto da Sergio Corbucci nel 1966 intitolato per l’appunto Django, il cui protagonista è un pistolero tormentato e disilluso interpretato da Franco Nero. Django ebbe moltissimo successo – vantando poi innumerevoli tentativi di imitazione e replica – e costituisce uno dei capostipiti del genere Spaghetti-Western. L’introduzione nell’economia del racconto di una dose cospicua di violenza, assieme ad una certa sottrazione di eroismo affiancata ad una sorta di prospettiva esistenzialista, a detta di molti fanno del film uno spartiacque ed un modello.
Per Tarantino Django è invece Jamie Foxx nei panni di uno schiavo che viene liberato da un cacciatore di taglie, il Dr. King Schultz (Christoph Waltz), e si ritrova temporaneamente arruolato come assistente di quest’ultimo, in attesa che giunga la bella stagione. Con la primavera arriva anche una missione importantissima per Django: recuperare la moglie ancora in schiavitù presso le piantagioni di Monsieur Candie, un perverso Leonardo Di Caprio.
Il Django di Tarantino è così una creatura nuova, che conserva della matrice disparati riferimenti estetici, un sostanziale approccio politico (ogni discriminazione razziale è riprovevole) e vaghe consonanze di contenuto che si manifestano, rullo di tamburi, perlopiù sotto forma di citazione o di cameo. Il primo di questi è metaforico e musicale, con la riproposizione per i titoli d’apertura del tema (e del lettering) del Django di Corbucci, fisico invece il secondo, con una piccola apparizione da parte di Franco Nero.
La differenza forse più macroscopica tra le due pellicole è che Django Unchained difficilmente può essere categorizzato come un Western. L’ambientazione geografica è certo quella, così come parte del corredo di situazioni e armamentari narrativi, ma scordatevi duelli sotto il sol leone, col fango agli stinchi o parossismi di sguardi sotto tese di abnormi Stetson.
Django, come è ovvio aspettarsi da Tarantino, è un ibrido. È una storia d’amore, l’epopea di rivalsa di uno spostato (un misfit), un drammone edificante dove alla fine gli equilibri si ristabiliscono, nonché una sorta di giustiziere della notte sotto mentite spoglie. E neppure stupisca quest’ultima associazione. All’indomani dell’esaurimento della moda dei Western made in Italy, infatti, seguì una fantasiosa riproposizione dei soggetti mai realizzati in chiave poliziesca.
Django Unchained è un omaggio ad una costellazione di generi e tipologie, una sintesi suprema di modelli, storie e archetipi, un über testo filmico che rimesta e ri-assembla alchemicamente. C’è un uso molto sfacciato e malizioso di dolly e carrelli, Tarantino ama girare, ama evidentemente le tutte le diavolerie che consentono riprese barocche, spettacolose e autocompiaciute. Il linguaggio cinematografico si mostra vanitoso e superbo, e va bene così.
C’è da dire che, visivamente, Django Unchained si propone in realtà come una delle prove forse più deboli di Tarantino, quindi la fascinazione che ho provato verso il film non va ricercata in questo genere di eccellenza. Nonostante le sparatorie perfettamente coreografate, la sincronia quasi sinfonica degli smembramenti, delle mutilazioni e dei ferimenti, siamo lontani dai picchi in technicolor di Pulp Fiction (1994) o Kill Bill (2003-2004) e il tutto si pone in maniera troppo lucida e incerata.
Django Unchained certo gronda sangue, lo fa gioiosamente e giocosamente, è un tripudio di sacche ematiche che brillano wagnerianamente. Ma proprio il carattere eccessivo del linguaggio ne svela l’artificio, la motivazione ludica e così facendo ne disinnesca il potenziale. Parafrasando il Godard sotto accusa di aver realizzato un film troppo sanguinolento, in Django non c’è molto sangue, c’è più che altro molto rosso
Non credo neppure che la mia buona disposizione verso quest’opera di Tarantino dipenda dalla natura politica, o meglio politicizzata del tema. Anche Inglorious Basterds (2009) era schierato: i Nazisti sono malvagi, siamo nati tutti uguali, la discriminazione non ha ragion d’essere.
Lo stesso dicasi per Django Unchained. Il razzismo e la schiavitù sono intimamente deplorevoli, il bene e il male sono individuabili e distinti.
DjangoUnchained è un film politicamente corretto che affida il suo messaggio ad immagini disturbanti ed eccessive. Perlomeno nell’intento. Dopo un periodo di esposizione anche quell’eccesso si rende normale, un po’ come è accaduto alle modalità tutte della rappresentazione cinematografica. Ormai nulla sconvolge più la YouTube generation. Non i temi, tantomeno le forme.
L’aspetto che mi ha realmente conquistato di Django Unchained è che per la prima volta mi è sembrato che Tarantino si riscaldasse. Questi suoi ultimi personaggi sono effettivamente coinvolgenti, hanno sogni, ambizioni, sentimenti, sono tridimensionali e materici. Non sono meri ruoli o dispositivi di avanzamento della trama, o peggio, occasione di sfoggio formale o esibizione di arguzie verbali.
Il personaggio del Dr. Schultz ad esempio sfiora il capolavoro e Christoph Waltz lo interpreta con una naturalezza sovrannaturale. Ma tutti i caratteri sono curati nei minimi dettagli, nevrosi o trauma. Da un irriconoscibile e magnifico Samuel L. Jackson nei panni di Stephen, lo schiavo collaborazionista che gestisce le piantagioni di Monsieur Candie, un Leonardo di Caprio impeccabile e in stato di grazia, che si è chiaramente divertito un mondo nell’impersonare un tale sadico, al sempre affidabile Jamie Foxx, versatile e leggiadro anche quando interpreta un uomo apparentemente privato di tutto.
Django Unchained mi ha vinto perché è un ottimo film di intrattenimento, è uno spettacolo cinematografico con tutti i crismi: si ride, si inorridisce e si spera.
Negli Stati Uniti la reazione al film è stata, ça va sans dire, mista.
Chi è preda di misticheria, chi affila la lama del giudizio.
Aldilà delle divergenze d’opinione, c’è stata soprattutto una certa qual difficoltà a comprendere alcune sezioni della pellicola ritenute troppo rilassate nel trattamento di argomenti tabù, e ancora molto carichi, come il Ku Klux Klan. Parte dei problemi deriva certamente dal fatto che le scene incriminate fossero estremamente citazioniste e una porzione dei riferimenti si sia poi persa nella trasposizione filmica.
Le strizzatine d’occhio agli appassionati delle pellicole di genere sono nel film naturalmente frequentissime e i numerosi fan di Django Unchained, sono sicura, stanno già approntando visioni guidate e cacce alla citazione.
Io per ora ne ho individuata una molto (ma molto) sottile tratta da Il Buono, Il Brutto e il Cattivo (1966).
Ti piace vincere facile direte voi…
Stefania Paolini
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