E’ interessante pensare come due film che escono quasi in contemporanea, il Lincoln di Spielberg e questo Django di Tarantino, si occupino entrambi di schiavitù, facendolo in due modi antitetici e non necessariamente complementari.
Se nel film di Spielberg questa abbietta attitudine terribilmente umana viene trattata in modo estremamente astratto, scolastico, quasi algido, relegando l’argomento alle aule e ai dibattiti forbiti in punta di fioretto, l’opera di Tarantino al contrario, sceglie la strada della concretezza e della passione, annegando la sua pellicola nell’odio e nell’ipnotico colore rosso del sangue, che va a lordare la pelle bianca e la pelle nera in modo indiscriminato e forzatamente democratico.
Firmando il meno tarantiniano dei suoi film, il regista di Inglorious Basterds, infarcisce il suo Django dei soliti siparietti esilaranti e di quei dialoghi al fulmicotone che ormai sono il suo marchio di fabbrica, quasi dominandosi però, costringendosi a tenere a freno quella parte di se che ce lo ha fatto amare a prima vista ed arrivando a perseguire con metodo, disciplina ed inusitato fascino, la poco battuta strada della misura.
Mostrando un grande rispetto per il tema forte ed importante che tratta, Django Unchained ha un rigore che poche volte abbiamo visto a questi livelli nelle pellicole di Tarantino. Piegandosi alle leggi del genere e sforzandosi di non rivoluzionarlo a tutti i costi, Django possiede una forma e un incedere quasi classiche. Capace di momenti estremamente meditativi ed altri semplicemente splendidi, Django Unchained procede lento ed inesorabile, fino all’esplosione di violenza finale, giusto corollario di sangue e carne ad una liberatoria resa dei conti che appare più filologica e necessaria che altrove.
La schiavitù qui non è una cornice, ma una dominante, un onnipresente protagonista, che ha le sue scene madri e che nel bene e soprattutto nel male è motore narrativo e scintilla, capace di mutare prospettive e destini. Non è un caso che alcune delle sequenze più dure del film siano proprio attinenti con questa pratica disumana e disgustosa, qui resa nella sua futile e diffusa accezione di semplice proprietà. Tarantino non risparmia nulla e mitigando l’umorismo, spinge saggiamente l’accelleratore sul realismo, strappandoci più di una volta un moto di disgusto e di umananissima pietà.
Cinema di genere che vola alto quindi, grande cinema che si confronta con il passato, con la storia e con il western, l’unico, vero e legittimo figlio di una cinematografia, quella americana, che da sempre con lui deve fare i conti. Su quel terreno, il regista Tarantino, pagato il suo debito, riappropriatosi del classico e di un’importante parte della sua identità, si libera delle bizzarre catene giocattolo che lo tenevano prigioniero e fa finalmente il suo ingresso trionfale nel mondo degli uomini liberi.
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VOTO
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