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“DNA” di Dario Giardi: l’Italia dei complotti e del darsi un tono

Creato il 26 novembre 2015 da Alessiamocci

Molise, 1979

Un incredibilmente ricco e antico sito paleontologico viene rinvenuto nelle vicinanze di Isernia. Il telegiornale riporta la notizia, che non ha però granché seguito. Non è un caso.”

Molise, 2015

Un team di ricercatori sta sondando le profondità del Pozzo della Neve. La corda che permetterebbe loro di risalire in superficie è saltata, ma non tutte le speranze sono morte: Daniel, membro della segretissima spedizione, ha rotto il patto, suggerendo alla propria ragazza il luogo in cui si trovano. Peccato che la ragazza di Daniel sia in Messico e che, mentre il team procede, i ricercatori incappino in un reperto che cambierà il loro itinerario.”

Città del Messico, 2015

Estela, la ragazza di Daniel, comincia a preoccuparsi. Dov’è la sua dolce metà? Non avrebbero dovuto sentirsi tramite Skype nei giorni precedenti, ma l’hanno fatto, e ora che Daniel è scomparso la messicana comincia a pensare che certe allusioni da lui fatte non fossero casuali. Voleva farsi trovare, Daniel? Ed Estela riuscirà a ritrovarlo?”

Non ho particolarmente amato DNA di Giardi, nonostante le premesse mi risultassero buone.

Una gestione della narrazione ben calibrata, del tipo che dà l’impressione di sapere dove vuole andare a parare, che si dosa senza perdersi in circonvoluzioni ma senza neanche ridurre all’osso la prosa pur di seguire passo dopo passo la trama, fulcro del romanzo. I gusti sono gusti, e un certo tipo di narrativa che va dritta al punto può piacere a molti – e forse DNA a molti piacerà, ma personalmente vi ho trovati troppe imprecisioni, troppi punti insoddisfacenti, per potermi godere la lettura fino alla fine.

La protagonista, Estela, è un’emotiva sensibile con una spiccata lucidità che emerge nel momento del bisogno – anche perché, se così non fosse, anziché svenire due volte (o erano tre?) nell’arco del romanzo, le sarebbe capitato una ventina. Ah, è bella. Ovviamente, verrebbe da dire. Questo non perché Estela sia un cliché, ma diciamo che il romanzo non abbonda di personaggi particolari, o – per meglio dire – particolarmente ben definiti nella loro unica e irripetibile individualità.

Ho apprezzato il professor Celli, che purtroppo è un comprimario a cui sono state date poche scene; avrei apprezzato padre Carlo, se le sue battute non fossero state abusate per dare ai protagonisti (e, soprattutto, ai lettori) informazioni essenziali per comprendere la trama (una tendenza all’info dumping che permea diversi punti del romanzo), anziché usate per caratterizzarlo; Peres avrebbe potuto essere un bel personaggio tragico, ma diviene una grottesca imitazione di un Quasimodo rancoroso, e la sua trama personale si risolve in una di quelle scenette-confessione che vengono fatte sbocciare nel momento più inopportuno – od opportuno, se lo scopo è lasciare tempo ai protagonisti di cavarsela a mo’ di deus ex machina.

A proposito di deus ex machina, in DNA non sono infrequenti. La particolare abilità di “sensitiva” di Estela mi ha fatto pensare, almeno in un punto, che fosse stata abusata in tal senso. Estela, d’altro canto, una volta giunta in Italia, si reputa felice di poter finalmente “sfoggiare le sue nuove abilità linguistiche”: ha seguito un corso d’italiano per ben altre circostanze, ossia “fare bella figura con i genitori di Daniel, quando sarebbero andati in Svizzera”. Vi aspettereste quindi che Estela sappia esprimersi come segue?

«Sì, in un mondo tecnologico che ha sempre fretta, l’idea di cimentarsi nello studio di uno strumento dal sapore antico, che produce un suono decente solo se si è in grado di approcciarsi con ritmi lenti e con tanta consapevolezza, mi ha sempre attirata.»

Ditemi in che scuola ha fatto quel corso di italiano: voglio andarci anche io.

Ironia a parte, l’incredibile capacità espressiva di personaggi che dovrebbero almeno sbagliare qualche congiuntivo non è certo prerogativa di Giardi, ma questo fattore non fa che aggiungersi ad altri deus ex machina. Come quando Estelasi avventò sul terapeuta puntandogli alla gola il piccolo coltellino svizzero che Daniel le aveva regalato e che portava sempre con sé, sfuggito alla perquisizione perché appariva come un innocuo portachiavi, legato a uno dei passanti dei jeans che indossava”, a pagina 170. Considerando che Estela fa il viaggio Messico-Italia a pagina 36, perché non nominare almeno una volta quel coltellino in 134 pagine? Per 134 pagine ho creduto Estela disarmata. Alzerei poi un sopracciglio dinnanzi al piatto già servito: il coltellino che passa così, senza problemi? Può darsi. Ma mi sembra meno probabile che una pallottola schizzi via, “scivolando lungo la calotta cranica senza ucciderlo sul colpo” (a pagina 178, non dirò chi), dopo che la pistola è stata puntata alla tempia (a pagina 174). Ma forse è solo una questione di scivolose scelte di termini.

A proposito di scelte di termini e stile, non ho particolarmente apprezzato quest’ultimo nel caso di Giardi.

L’autore si avvale di una prosa che ha quel gusto vagamente anticato, certamente dall’odore più colto che popolano, proprio di quell’Italia che, quando scrive, si dà un tono. Per abitudine o per vezzo, non saprei. E così si hanno “tuttavia” al posto di “ma”, “non riuscì a chiudere occhio” al posto del meno retorico “non riusci a dormire”, “si era adoperato affinché” anziché “aveva agito per” (ho preso esempi a caso sfogliando il libro), e in generale alcune scelte di registro più alto, da prosa più controllata.

Sarebbe una scelta come altre, se non coesistesse con imprecisioni nell’uso della lingua – e, si sa, una macchia su un’elegante camicia intonsa fa più effetto che su una consunta canottiera grigia. Ad esempio, la nostra protagonista – che si trova nella base operativa del nemico, dove ci si aspetta che il nemico sia a ogni angolo – dopo essere riuscita a scappare da una stanza in cui ha avuto luogo una scena di violenta colluttazione che non ha, però, ucciso i nemici, ma li ha solo verosimilmente fatti incazzare ancora di più, si rifugia in un’altra stanza poco distante dalla prima, in cui “intuisce” che qualcuno l’ha seguita. Intuisce? Arguta intuizione!

D’altro canto Estela non sembra brillare per capacità logico-deduttive. Poche pagine dopo, vedendo il personaggio che fino a quel momento ha agito da gorilla dei cattivi (e che è sempre più incazzato) entrare nell’angusta torre in cui si è rifugiata, “ha l’impressione” che, se non farà qualcosa, finirà male per lei e per i suoi amici. Perspicace!

Finirei con le orbite che vorticano a pagina 177, che suggeriscono una scena ai limiti dell’anatomia umana, per dire lo scontato: le imprecisioni linguistiche che ho riportato sono difetti di natura minore, sviste, niente che non possa capitare a chiunque per distrazione o che non possa rimanere a seguito di un rimaneggiamento del manoscritto se non è aggiustato da un buon editing. Minuzie, in sé.

Ma la prosa di Giardi, in sé, non mi pare particolarmente sviluppata. Non ho trovato un suo stile, unico e inconfondibile, un modo di cadenzare la narrazione o di scegliere i termini, di sincopare o diluire, un qualcosa che lo faccia amare per il come scrive, nel piccolo e nel grande. Se c’è, questo stile, non ho saputo distinguerlo dall’italiano buono dell’Italia che quando scrive si dà un tono.

Rimane la trama.

Se vi piacciono quelle storie che prendono elementi già noti – il DNA, gli alieni, il Vaticano, la paleontologia, gli etruschi, l’ESP, etc... – e li accoppiano in nuove conformazioni-ipotesi, DNA vi darà questo. Quanto sia innovativo il modo in cui lo fa, non saprei: lascio agli esperti del genere il piacere di scoprirlo.

 

Dario Giardi è scrittore (anche di guide turistiche), fotografo, musicista. Appassionato di arte e cultura celtica, etrusca e romana, ha pubblicato due romanzi: La ragazza del faro (2014) e DNA (2015).

Written by Serena Bertogliatti


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