Quando chiedevo che mi venisse spiegata la differenza tra il judo e il jujutsu, il mio sensei usava portarmi la metafora della montagna. Cerco di ricordarmela e di scriverla.
Per il mio maestro l’arte marziale è come una montagna e il viaggio (la vita) ci conduce verso la vetta. Ma come una montagna vera, una faccia è rocciosa e l’altra collinare, un lato freddo, l’altro assolato. Quando ci si prepara all’ascensione, dal basso, è possibile avere una visione d’insieme e decidere come si vuole salire: per la via più rapida e diretta o per il sentiero più lento e dolce. E’ in questa fase che, di fatto, decidiamo quale è il nostro obiettivo: vogliamo godere del panorama e imparare qualcosa sulla flora e la fauna locale oppure preferiamo acquisire delle tecniche che ci permettano di arrivare in vetta anche nelle condizioni più avverse?
Ed eccoci al nocciolo della questione, jutsu significa metodo, tecnica, il suo obiettivo è esplicitamente funzionale. Dall’altra parte il fine del do, che significa via, sentiero, è quello di raggiungere un certo livello di introspezione, una profonda esperienza della realtà.
Nel Giappone del XIX secolo, con l’era dei samurai al tramonto, la cultura cambiò e la tecnologia rese obsolete, in un modo o nell’altro, le arti di combattimento tradizionali. La gente volle comunque continuare a praticare le arti marziali ma dovette spostare la propria attenzione: questa nuova generazione scelse come scopo principale l’auto-miglioramento e l’elevazione spirituale (vedi anche qui). Successivamente questo cambiamento di obiettivo si tradusse in una ristrutturazione, più o meno marcata, del bagaglio tecnico delle discipline che, di fatto, non avevano più come priorità l’efficacia.
Veniamo, finalmente, al Parkour. Ritengo che la nostra disciplina si trovi in una posizione privilegiata rispetto alle arti marziali giapponesi. Il jutsu del parkour, infatti, non consiste in una serie di tecniche per lussare le articolazioni o decapitare gli avversari, ma in un sistema generale per superare gli ostacoli dell’ambiente che si attraversa. E’ quindi evidente che il jutsu del parkour può essere applicato nella sua forma più utilitaristica senza che si debba venir meno ai propri principi etici (o senza incorrere in serie conseguenze legali). Praticare il jutsu significa, per me, tracciare dei percorsi in continuità da un punto di partenza ad uno di arrivo prestabiliti, facendo attenzione:
- Ad applicare la giusta serie di movimenti (per non sprecare energia o tempo)
- All’ armonia dei movimenti che si susseguono (perché dalla fluidità del susseguirsi delle tensioni muscolari deriva l’efficacia di una serie di movimenti)
- Alla silenziosità degli impatti (perché “no sound, non shock”)
- Portare a termine esercizi di condizionamento particolarmente faticosi (dal punto di vista fisico ma, soprattutto, da quello mentale) che mi prefiggo (per temprare la mia forza di volontà)
- Eseguire singoli movimenti rischiosi, ovvero motoriamente difficili e potenzialmente pericolosi (per sviluppare concentrazione e lucidità nei momenti di stress)
- Raffinare le tecniche (per rispondere a un senso estetico e funzionale)
La fortuna del Parkour è proprio qui: il do e il jutsu del parkour non sono così difficili da integrare come quelli nelle arti di combattimento giapponese. E’ possibile, per noi, sviluppare insieme le due cose: appoggiandoci al do per sviluppare e dare senso ad una tracciata e tracciando per uscire da una ricerca eccessivamente specialistica o estetizzante.
PS: in cantiere due video che cercano di chiarire ulteriormente l'argomento.