Magazine Rugby
Il ct. della nazionale italiana di rugby afferma:"Per quanto riguarda il Pro12 (la Celtic League n.d.r.), credo che per la nazionale sia importante che le squadre italiane siano competitive in questo torneo. I successi della Benetton sono importanti, è fondamentale che anche gli Aironi ottengano un maggior numero di risultati positivi. Vogliamo collaborare il più possibile con loro per far sì che questo accada".
Ripetiamo, dandoci dei pizzicotti per assicurarci che non stiamo sognando: alla Nazionale servono i successi della Benetton, non solo che tenga "caldi" gli atleti nazionali, così come è importante aiutare gli Aironi a vincere di più, non solo usare la franchigia padana come parking lot per stimati veterani stanchi di girare il Mondo e prospetti dalla maturazione un po' ritardata.
Si tratta di una autentica rivoluzione copernicana nell'approccio al vertice del movimento, il rovesciamento della frase pronunciata a inizio anno dal Presidente Dondi: "Le italiane in Celtic? Devono servire a sviluppare atleti per la Nazionale, sennò che le abbiamo mandate a fare?". Ne siamo quasi commossi: nel nostro piccolo da sempre ripetiamo che il successo dei club innesca quello della Nazionale, non il viceversa. Sulla scorta dell'evidenza di dodici anni di ultimi posti al Sei Nazioni.
Un paio di mesi spesi proficuamente in giro per spalti e spogliatoi, ora il nuovo ct enuncia questo netto cambio di approccio che potrebbe inaugurare finalmente un nuovo corso tra Federazione/Nazionale e vertice del movimento: più sensato, collaborativo e fecondo. Brunel per giunta non sta trascurando nemmeno l'altra "gamba" del movimento: son sintomatiche le visite del ct in lungo e in largo nell'Eccellenza, sfociate in alcune convocazioni. Basta compartimenti rigidamente stagni, vòlti mantenere in piedi certe parrocchiette, pare il messaggio che giunge dall'omino del SudOuest che par tranquillamente ma decisamente aver preso in parola il Dondi sulle strategie di sviluppo: "Farà lui, io non ci metterò (più) bocca" (parentesi nostra).
Se questo nuovo clima fosse confermato nel tempo, ci sentiremmo di scommettere che a breve potrebbero svaporare le querelle tra Benetton e Federazione su stranieri e equiparati, quanto quelle sui contratti degli italiani di interesse nazionale. Si troverebbero finalmente accomodamenti di buon senso e condivisi, senza le rigidità passate stile "siete liberi di esser d'accordo con noi, sennò fuori".
Anche le altre risposte del coach trasudano solido buonsenso. Ad esempio informa di non attendere gran cambiamenti nel prossimo Sei Nazioni, (anche per le altre antagoniste, "il tempo a disposizione dopo Nuova Zelanda 2011 è poco per apportare stravolgimenti"). Nè in termini di gioco nè tantomeno di protagonisti, capitano incluso: "Se Parisse avrà ancora voglia di farlo, resterà lo skipper della Nazionale". Bocce ferme, almeno per adesso. Questo Sei Nazioni sarà insomma stabilire un "as is", fissare il punto-nave per tracciare la rotta verso il "to be" dei prossimi anni.
Tutto questo con buona pace degli ansiosi di eliminare ogni ricordo del Mallett, e son tanti, in particolare quelli ancora offesi per quel suo aver osato dire la verità sulla preparazione media degli addetti ai lavori italici. Nonostante l'appello alla continuità, almeno momentanea, molti si sono concentrati a sviscerare il nuovo concetto di "maggior equilibrio tra reparti". Brunel chiarisce: "Cercheremo di proporre un gioco maggiormente equilibrato tra avanti e trequarti. Il pack italiano resta un punto di forza importante, dobbiamo dare maggior peso anche al gioco della linea arretrata".
A noi questo non pare riguardi specificamente attacco o difesa, è piuttosto un elemento di impostazione generale del gioco che diventa criterio di selezione. In sostanza il coach informa che è finito per i trequarti Azzurri la scusa del sentirsi "figli di un dio minore", in secondo piano rispetto al pack. Chi vorrà far parte del nuovo progetto nazionale, dovrà allora essere in grado di assumersi responsabilità, di salire al livello degli avanti in termini di peso relativo nell'economia del gioco (sia d'attacco che di difesa); in cambio, non ci sarà nessuna sfiducia o limitazione a prescindere da parte del coaching team.
Anche la risposta di Brunel alle inevitabili domande sull'apertura (ah, gli eterni orfani di Diego Dominguez ) è utile per illuminare il concetto. Il coach non scuote la testa sconfortato: dopotutto è un francese, là il gioco lo fa più il mediano che l'apertura. Non fa nomi, enuncia anche qui criteri di impostazione del gioco che diventano indicazioni per la selezione:
" E' un ruolo difficile, di grande responsabilità, dove la capacità di prendere la decisione giusta è fondamentale. Io ho avuto il privilegio nella mia carriera di allenare Dan Carter, il numero 10 più completo del panorama internazionale. Posso dire che un grande numero dieci deve essere in grado, su quaranta scelte di gioco possibili nel corso di una partita, di fare la scelta giusta per la squadra trentacinque volte".
Do the right thing, come diceva il vecchio a Mookie nel film omonimo di Spike Lee. Non vale solo per l'apertura. Significa esser propositivi e confidenti, significa anche esser pronti a pagare il prezzo di un certo margine d'errore (quantificato 5 su 40, cioè un tollerante 12%); è diverso dal "do the things right" cioè primo non sbagliare, leit motif dell'era Mallettina che ha fatto indubbiamente crescere ma anche ingessato gli Azzurri. Staremo a vedere.
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