«Non possiamo parlare? Devi andare proprio adesso, senza darci nemmeno la possibilità di discuterne?»
Lui fa un gesto di impazienza.
«Sono anni che cerco di parlarti. Devo andare via per chiarirmi le idee. Ti chiamo quando torno.»
Rose sa che Ben è deciso, e anche esasperato.
«Non sei nemmeno arrabbiato?» le chiede. «Lanciami qualcosa, picchiami se vuoi, ma Cristo, reagisci.»
«No, non sono arrabbiata» risponde Rose. «Non so che che cosa provo, ma non ho certo voglia di picchiarti.»
Di colpo Ben si dirige verso la porta.
«È per sempre, non è vero? Non è solo per un periodo.»
Ben si volta verso di lei, la faccia pallida.
«Credo di sì. Non ti amo più.»¹
Catherine Dunne, La metà di niente, Guanda, Parma 1999 (traduzione di Eva Kampmann).
¹Allora: non ho letto (ancora) il libro della Dunne. Lo sta leggendo mia moglie. Ho sfogliato solo l'inizio ove ho trovato questo dialogo le cui ultime parole hanno ispirato quanto segue. Un grazie anche al ricordo di questo spettacolare ensemble di prugnolo e di mammolo.
Avrei voluto, anzi, avrei dovuto stare zitto, non dire niente, andarmene senza giustificare alcunché, giacché dire «non ti amo più» non è vero, ora che ci penso, nella misura in cui non amo abbastanza me stesso. Infatti, dire alla persona con la quale abbiamo condiviso lotte, baci, figli, abbracci, sogni, cibo, docce, desideri, bisogni e innumerevoli altri particolari che formano una vita a due – ecco, dire a quella persona «non ti amo più» si avrebbe il diritto di dirlo solo quando avessimo davvero, e profondamente, cominciato ad amare se stessi.
Il bene è incancellabile, altro che sopportazione, altro che croste della grigia quotidianità che non si vogliono staccare.
E sicché io e tu dovremmo, nel caso fosse vero ed entrambi sentissimo la cosa come nostra, dirlo insieme all'unisono: «non ci amiamo più» ma non andiamo via, teniamo, conserviamo quel che ci resta, che ci fa incrociare le gambe sotto le coperte.
«Non ti amo più»; oppure: «amo un'altra/un altro»: che menzogna. Dire: «amo me stesso, finalmente: ciao, e grazie di tutto»: che verità. E siccome non siamo sinceri, “spontanei”, altrimenti non ci piacerebbero la lettura, il cinema, gli sceneggiati, la finzione in generale, allora continuiamo ad assistere allo spettacolo degli altri che si lasciano, tra schiaffi, dolore, orgoglio, rassegnazione e simulata nuova felicità. Tutti a sperare che la vita possa dare altre possibilità. Tutti a dire «voglio ricominciare a vivere» come se si fossero mai fermati. L'illusione di spezzare la propria storia dai fili che la legano al passato, allagando i propri ricordi, disfacendoli nella piena della presunzione, no, non è possibile. Perché noi siamo innanzitutto produttori di ricordi e si comincia a capirla questa cazzo di vita quando si riesce a vinificarli, a metterli in barrique di rovere francese, per tirarli fuori al momento giusto, alla giusta ora per stapparli poi e brindare al fatto che in un certo punto della storia di questo universo noi siamo stati vivi e abbiamo “prodotto” un barlume d'amore.
«Fa meno freddo stanotte, non trovi cara?».
«Sì, hai ragione: e poi il vino era talmente buono che ce l'ha fatto passare».