Nel 2013, con l'aiuto di un bastone munito di una punta sottratta a un'arma nemica, il giornalista della «Repubblica», accompagnato dal regista Alessandro Scillitani, ripercorre i camminamenti a strapiombo sul vuoto tracciati dai nostri soldati ed entra nelle «fortezze incavernate» scavate nelle montagne.
Da
triestino, «figlio
bastardo di una città austriaca per quattro secoli»,
Rumiz incontra testimoni, storici e “recuperanti” di resti e
cimeli di un conflitto che l'Impero pensava di risolvere con qualche
colpo di artiglieria. Beffa nella tragedia, lo
scontro sul fronte orientale avrebbe potuto davvero concludersi in
poche settimane.
Gli austriaci erano pochi. Sembravano molti perché si spostavano in
continuazione. Ma gli italiani non lo sapevano. Così ebbe inizio la
guerra di logoramento, ma anche di massacri pianificati.
Con
la guida del giornalista che ha seguito in prima linea il conflitto
in Croazia e Bosnia-Erzegovina e l'attacco americano in Afghanistan,
L'albero
nelle trincee ci
accompagna dunque nei luoghi in cui si svolsero le battaglie
dell'Isonzo e tra le cime presidiate dai cecchini austriaci. Per
questa via, ci
racconta come si evolse la Grande Guerra con cui, per Hobsbawn come
per La
grande illusione di
Jean Renoir (1937), ebbe fine un mondo
e, soprattutto, cerca
di farcela “sentire” per ciò che fu e per ciò che può dirci
oggi.
Seguiamo dunque Rumiz lungo i sentieri e nei cunicoli delle città costruite nelle montagne sventrate. Ascoltiamo le storie di chi vuole mantenere viva la memoria di soldati leggendari come quelli di Cingia Martini, celebri per il coraggio, la capacità di rinvigorire la speranza (da lì echeggiarono per le vallate le arie del Rigoletto a rassicurare i compatrioti lontani: la brigata Martini resiste!) e il suo umorismo vitale («Mira meglio!», scherzando urlavano al nemico).
Assistiamo a testimonianze della disumana severità imposta dal Cadorna nel cui “libretto rosso” si leggeva: «Le seconde linee si faranno scudo delle linee cadute». I soldati in prima linea conoscevano il loro destino: essere sacrificati e trasformarsi in barricate umane. Ci viene raccontato anche l'atteggiamento al limite della follia del generale Andrea Graziani, che perlustrava il fronte in macchina pronto a sparare a un soldato che lo incrociasse con sguardo di scherno. Il Graziani che sarà trovato morto sui binari della stazione di Bologna nel 1931. «Per un incidente», si scrisse. Ci si inoltra nel periodo della febbre “spagnola” (spagnola perché solo nel Paese iberico estraneo al conflitto i media davano notizia dell'epidemia): i soldati, oltre a rimanere insepolti di fronte alle trincee, erano accatastati su carri e gettati in fosse comuni. Ma non si dimenticano gli accordi non scritti tra fronti opposti e gli scambi di sigarette e pane nelle terre di nessuno, da avvenire in assoluto incognito pena l'accusa di alto tradimento.
Quello non possono dire le testimonianze o i rapidi raccordi storici, efficaci grazie a un abile uso del montaggio, lo comunicano le camminate, gli ingressi nelle caverne buie e le uscite alla luce che sembra di vivere in prima persona. E ce lo racconta il paesaggio. Guardando L'albero tra le trincee, lo spettatore non si trova di fronte a una lezione di storia, ma a un viaggio in cui impara a sentire e a comprendere.
Paolo Rumiz
Dalle Dolomiti abitate al Carso coi suoi «buchi pieni di fango, merda e sudore», Rumiz e Scillitani avanzano, in silenzio. Il giornalista prende appunti che trasformerà negli articoli pubblicati come lettere al figlio, nell'agosto del 2013, su «la Repubblica». Scillitani lo segue, lasciando parlare il paesaggio, possente e monumentale, paziente e immortale; certo meno mortale degli uomini la cui fragilità è evocata per antifrasi dalle immense alture verdi o avvolte dalla nebbia. Senza che la natura, anche se violentata, ne sia stata scalfita, le urla, le risate e i colpi di fucile sembrano echeggiare ancora. Soprattutto d'inverno. Perché quello di Rumiz «è un viaggio da fare d'inverno», per cercare di capire cosa vissero uomini le cui ossa «ancora chiedono pace». La chiedono anche dall'imponente ossario che Mussolini volle costruire sul Monte Grappa. I resti dei soldati, recuperati e venduti un tot a coccige, sono smistati in cubicoli vari, anche insieme a resti nemici, perché il sacrario andava riempito. C'era però un albero, che i soldati austriaci tagliarono e portarono con sé quando abbandonarono il fronte. Rumiz ne pianta un altro sul Carso che ha attraversato, a emblema di vita, in occasione della nascita di suo nipote. Il documentario, che porta per intero la sua firma, non è forse un metaforico albero innalzato sul mondo delle trincee recuperate alla memoria?L'albero tra le trincee dovrebbero essere visto per la ricchezza delle testimonianze, la vividezza degli aneddoti raccontati, l'interesse dei puntuali richiami storici, la bellezza dei paesaggi ammirati con reverenza da lontano e dei cunicoli che lo spettatore attraversa con un Rumiz ricco della sua esperienza di uomo e di giornalista di guerra. E anche per quel riuscito equilibrio tra silenzioso rispetto e capacità di dare voce, con mezzi tecnici elementari, a un'esperienza che è un percorso intellettuale ed emotivo non solo lungo il nostro fronte orientale, ma lungo ogni fronte (già qui: http://www.sulromanzo.it/blog/docufilm-l-albero-tra-le-trincee-di-alessandro-scillitani)