Magazine Cultura
Diciamo subito che già la presentazione in puro stile Ammaniti è stata divertente e illuminante. Il Direttore del Festival Andrea Romeo ha scherzosamente rimproverato lo scrittore, la produttrice Erica Barbiani e il direttore della fotografia Stefano Saverioni perché retrocedevano troppo verso lo schermo rischiando di trovarsi a breve dietro le quinte. La produttrice si è giustificata con un sorriso: «siamo un trio così improbabile...». Come darle torto? Ma siamo nel mondo di Ammaniti, che poi con le sue battute ha subito introdotto gli spettatori all'atmosfera del suo documentario.
Il titolo si presenta serioso e promette viaggi spirituali alla ricerca di sé. Racconta le vicende di tre giovani italiani che negli anni Settanta andarono in India senza immaginare che nel loro Paese non sarebbero più tornati. Ma, anche qui, trattandosi di Ammaniti, c'era da prevedere che le aspettative sarebbero state rovesciate. Già nella citata Masterclass, del resto, lo scrittore aveva affermato: «Non sono interessato alla spiritualità»
Stando alle sue parole, non lo fu nemmeno nel suo primo viaggio in India, compiuto ai tempi degli studi universitari. Eppure capitò proprio nella Rishikesh che fu nel 1968 meta dei Beatles interessati alla meditazione trascendentale. Ma nella città che è tappa iniziale di un pellegrinaggio sacro ed è sacra in sé perché alla confluenza di tre fiumi tra cui il purificatore Ghat Triveni, lo scrittore si ritrovò perché era economica. Lui voleva “fare l'inglese”: viaggiare leggero e spendere poco o niente. Del luogo sacro ricorda un tempio in cemento, mucche che vagano nelle strade mangiando carta e lebbrosi certificati (perché c'erano anche i deformi non malati che si infiltravano nel gruppo). Rishikesh gli regalò però anche l'incontro con Baba Gianni, un guru che aveva stabilito il suo tempio sotto un albero, ed era originario di Frascati. Di quell'uomo che lo aiuterà a scoprire l'India, colpì lo scrittore la sua «memoria bloccata» al tempo in cui aveva lasciato l'Italia. Oltre a ciò, più che essere interessato alla sua “nuova vita”, Ammaniti si sentì intrigato dai motivi che lo avevano spinto a lasciare il suo Paese
Questa curiosità trova ora espressione, almeno parziale, in The good life, che lo stesso Ammaniti non sa «se è un documentario o una serie di interviste». E anche qui diciamolo subito, sicuri che lo stesso novello regista ne sia consapevole: si tratta del debutto di uno scrittore che maneggia con la scioltezza di un abilissimo giocoliere le tecniche narrative e che è dotato di un originalissimo e potente immaginario personale, ma che ancora non padroneggia appieno videocamera e montaggio. Il risultato è che, anche solo dal punto di vista narrativo, la stupefacente eccentricità degli intervistati è tutta immanente ai loro “caratteri”, ma non è resa con adeguati strumenti cinematografici.
Comunque, dribblando tra prima prova registica e autoconsapevolezza, Ammaniti ci regala un documentario godibilissimo. Dimentichiamo dunque ogni esotismo ed entriamo nell'esotico in sé universo dello scrittore. Incontriamo Baba Shiva, che un giovane rematore indiano sta trasportando sulle rive del Gange. Immerso in un'India travolta dal caos delle sue contraddizioni, lo ascoltiamo parlare vicentino, avvolto nel suo sacro abito rosso, da una quantità massiccia di collane e decorato da fiori colorati. Baba Shiva è scappato dall'Italia perché non voleva fare il servizio militare. Volle tornare per partecipare al funerale del padre, ma lo mancherà, e non per un lapsus alla Svevo. Sarà fermato alla frontiera dove scoprirà che su di lui pendono non si sa quanti mandati di cattura internazionale. Che siamo nel 1972 forse non giustifica l'assurdo. Il futuro Baba Shiva decise così di lasciare il nostro strano Bel Paese e raggiungere l'India, dove, grazie a un tenero vitello bianco, avrà inizio la sue trasformazione, benché anche lui – come Ammaniti – fosse ben lontano da ogni impulso di ricerca spirituale. Se volete, potete andare a cercarlo a Benares, dove ora vive.
È poi la volta dello straordinario Eris, stabilitosi sull'Himalaya con la sua famiglia dopo vent'anni di nomadismo che gli sono serviti – parole sue – a «togliersi di dosso la merda della scuola italiana» che uccide il potere dell'immaginazione e che lo aveva cacciato, per di più con l'etichetta di semi-infermo di mente. Il ribelle anti-democratico che non ha più voluto saper niente dell'Italia e che parla con forte accento vicentino, ha trovato in India lo «spazio fisico e sociale per essere quello che era» e soprattutto ha raggiunto la «liberazione dalla paura»
Bizzarro all'eccesso è infine Baba Giorgio, di Torino. Era alle medie quando una voce nella testa iniziò a ripetergli: «Tra poco andrai via e non tornerai più». E a 14 anni scappò nell'India dove la sua vita, ora, ha un senso. Ci racconta quello che si ricorda, questo personaggio con cui passiamo dall'eccentricità allo straniamento.
Come si può vedere, sono tutti personaggi all'Ammaniti, che ci conducono intervista dopo intervista a scalare non l'Himalaya, ma le vette dell'inverosimile e del paradossale. A risate che non ci saremmo aspettati e che portano però con sé valanghe di sensazioni e di retro-pensieri, che solo a posteriori acquistano chiarezza e aprono alla comprensione umana che riconosciamo in Ammaniti. Le esistenze dei tre spatriati sono state davvero salvate da un'Italia che le avrebbe strangolate e offese, come insinua il blues che accompagna molte scene
In conclusione, nonostante i suoi limiti di “abbozzo”, nell'originale The Good Life lo sguardo e la mano dello scrittore sono ben presenti. Per fortuna. O non sarebbe accaduto che, all'uscita dalla sala, un ragazzino chiedesse alla propria madre: «Ma è vero?». Già. È proprio Ammaniti. (già, con varianti, qui: http://www.sulromanzo.it/blog/docufilm-the-good-life-di-niccolo-ammaniti)
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