Da quel luogo sarebbe iniziate corrispondenze (per posta o per telefono) tra artisti di tutto il mondo che in comune avevano solo una decisa volontà di rottura rispetto all'establishment culturale. In quello spazio gli artisti si sarebbero anche ritrovati e avrebbero lavorato fianco a fianco, proseguendo ognuno nella propria direzione ma – in modo inevitabile – nutrendosi delle discussioni e dei reciproci stimoli creativi. «Un network prima di internet», come si afferma nel documentario. In effetti, per la prima volta nella storia, grazie alla personalità catalizzatrice di Maciunas, Fluxus realizza una rete culturale che varca ogni confine.
"Varcare", "uscire", "aprirsi", "espandersi", "mutare": sono parole leitmotiv (e polivalenti) del movimento nato a New York. «Un movimento di resistenza», per Achille Bonito Oliva. Soprattutto, un movimento di alternativa radicale e di spaccatura che, sebbene dichiarato morto dal fondatore nel 1977, è rimasto vitale a lungo. Per Gino Di Maggio, anzi, la sua più straordinaria manifestazione è stata Ubi Fluxus ibis totu, presentata alla Biennale di Venezia del 1990. E anche oggi l'interesse nei confronti della creazione di Maciunas sembra conservare la sua ragion d'essere. Travelling in(to) Fluxus non ci presenta, infatti, il movimento e le sue sollecitazioni come datati e archiviabili. Da questo punto di vista, il documentario di Irene Di Maggio è avvincente. Il suo film di investigazione, che è un viaggio impossibile da ultimare verso il morfeico Fluxus, è ricchissimo di contributi e stimola a una serissima riflessione sull'arte del secondo Novecento e sull'arte in sé. Del resto, il to tra parentesi segnala che la meta – il movimento coi suoi gangli plurimi – e l'obiettivo – tentare di costruire almeno una mappa di Fluxus – sono utopie, seppur necessarie, purché si sia consapevoli che di miraggi si tratta. Diviso in capitoli utili a scandire pietre miliari o aspetti salienti del movimento senza strangolarlo in cerniere a cui sarebbe comunque irriducibile, Travelling in(to) Fluxus alterna interviste (curate dal critico d'arte Gianluca Ranzi) agli artisti rintracciati ed eccezionali video e foto d'archivio. Per lo spettatore, è un "viaggiare (attra-)verso" esperienze originalissime e un progressivo comprendere il pluriverso di Fluxus.
Fluxus letteralmente significa "flusso diarroico", che «fa convergere e ripulisce». È cambiamento e movimento, che parte da radici forti per propagarsi, espandersi all'esterno, valicare confini. In effetti, tutto è flusso in Fluxus, ma quella citata è l'accezione prima, non a caso più volte ribadita nel documentario. Diamo qualche coordinata. George Brecht, John Cage, Dick Higgins, Henry Cowell, Daniel Spoerri e i numerosi altri artisti del movimento volevano tornare all'epoca pre-rivoluzione industriale, cioè all'assenza di catalogazioni e compartimentazioni, «senza spartiti e senza cornici». Il fatto è che «John Cage e Duchamp ci hanno messo nella merda», dice Fluxus: tutto sembra possibile dopo il Dadaismo che ha fatto esplodere ogni convenzione e dopo che un Cage si è seduto di fronte a un piano senza suonarlo. Che fare dopo queste cesure, senza rientrare nell'alveo caldo e materno dell'ufficialità o nell'immobilità del nichilismo? Si comincia riscoprendo le avanguardie della prima metà del Novecento (a partire dal Futurismo) con la loro forza di rottura e il loro gusto del “discorso tra artisti”; poi si recuperano un interesse e un dialogo col popolare. Si prepara così la via alla riscoperta e alla valorizzazione dell'happening da parte degli artisti di Fluxus, che si pongono fuori dal sistema, poveri o pronti a esserlo, decisi a immergere sé stessi e l'arte nel fluire della vita dove «something always happens». Arte coincide allora con creazione artistica, non con prodotto finito e mercificabile magari da appendere alle pareti o posizionare su un piedistallo, in un flusso che si fa mentre accade anche grazie alla partecipazione del pubblico. Fluxus è, dunque, «un lusso della mente, impossibile da vendere; ed è la parte migliore», e insieme un immanente work in progress, l'«oggetto quadridimensionale» e concettuale dell'evento nella sua materialità dialettica in intrinseco divenire. L'apice si raggiunge con l'aspetto intermediale o intramediale o plurimediale (ogni artista ha la sua definizione): le arti si incontrano e dialogano tra loro, in modo programmatico e nelle art sessions delle performance. Grazie a interviste intelligenti e abilmente montate, e a preziosi e interessantissimi materiali di repertorio, Travelling in(to) Fluxus è un'ottima trasposizione filmica dell'idea fondante del movimento. Il documentario di Irene Di Maggio è un happening: un viaggio-flusso verso un movimento fluido e aperto, che eccita la mente e strania le coordinate spazio-temporali e concettuali dell'arte canonizzata. Fluxus ancora provoca. Irene Di Maggio ha il merito di essere riuscita a raccontarcene alcuni percorsi in modo non dogmatico e definitorio/definitivo, ma vivace, divertente e in fieri. Proprio come sono le opere degli artisti del movimento. Provate a fare qualche ricerca su youtube e potreste stupirvi. Intanto, qui il link al trailer Aggiungo solo questo: tanto più lo spettatore è sprovvisto di rigide categorie ereditate o, avendole, è disposto a metterle in discussione, tanto piùTravelling in(to) Fluxus potrà trasformarsi in una magnetica e affascinante avventura.
(già qui: http://www.sulromanzo.it/blog/docufilm-travelling-into-fluxus-di-irene-di-maggio)