La storia individuale si intreccia con quella artistica ad ampio raggio. Ed ecco che Jack Cardiff, direttore della fotografia memorabile, diventa un volto, un'espressione, una storia in sè stesso, nei suoi eventi, nei suoi attimi. Ed è un omaggio all'uomo e all'artista, al cinema e alla passione. Sostenuto da un'eleganza formale oltre misura, "Cameraman: The Life and Work of Jack Cardiff" è una pagina importante di storia del cinema destinata a rimanere non semplice carta morta ma immagine nitida, in movimento, voce e cuore sullo schermo. Un'idea che farà piacere a Scorsese, che nel cinema sul cinema ha rappresentato, finora, il non plus ultra della tradizione documentaristica hollywoodiana.
Piuttosto che discutere sulla qualità, molto alta anche se non sempre fruibile con facilità, del documentario realizzato da Craig McCall, che sceglie, con arguzia, l'idea delle interviste incrociate (con Cardiff ancora in vita a delineare la sua prospettiva), unite a reperti storici di backstage e dichiarazioni di insigni maestri, aggiungendo molte sequenze, indicate con didascalia, di opere inerenti all'epoca, mi preme evidenziare la figura centrale del documentario, che costituisce un nobile esempio di passione artistica fine a sè stessa. Jack Cardiff è stato un direttore della fotografia acclamato e geniale e ha vissuto e oltrepassato tante tappe diverse della storia cinematografica fino a diventare una sorta di "simbolo-feticcio" dei tempi passati, presenti e per certi versi futuri. Vissuto tra il 1914 e il 2009, indirettamente o meno, ha compiuto un tragitto che è strettamente legato alla concezione di cinema che è oggi patrimonio comune e che presuppone una valenza artistica già stabilizzata e riconosciuta (rispetto agli esordi ottocenteschi in cui la componente tecnica era dominante). Cardiff comincia a lavorare ("Gli ultimi giorni di Pompei") nel 1935, in un momento in cui il muto è un lontano ricordo e la figura del direttore della fotografia è altrettanto in evoluzione (o meglio involuzione). E' il periodo in cui si afferma compiutamente il regista come elemento cardine di riferimento dell'opera e viene maturando quella che sarà poi una consuetudine di attribuzione. Il film, in quanto tale, diventa, progressivamente, inscindibile dal suo director, mentre il direttore della fotografia (una volta così centrale, come nel caso di Bitzer con Griffith) ora è una figura tecnica importante ma secondaria. Lo star-system farà il suo, occultandola ulteriormente. Eppure Jack Cardiff ce la fa, come altri, ad essere un nome noto e apprezzato nel settore e a diventare parte integrante dei meccanismi principi della produzione di allora. La sua fama è tale, nei settori specializzati, che riesce a diventare egli stesso un regista, di certo non conosciutissimo, ma capace di piccole gemme come nel caso di "Figli e Amanti" del 1960 (potete ammirare un piccolo frame, evocativo, tra le immagine introduttive del post, sotto la dicitura originale "Sons & Lovers). In Cardiff l'elemento tecnico e artistico sono un tutt'uno. Da vedere le sue opere più note, in tandem con la coppia Powell/Pressburger, "Narciso Nero" con cui ottenne l'unico Oscar della carriera per la cinematografia a colori e il caso successivo, di fattura sublime, con "Scarpette Rosse" del 1948. Evitando di aggiungere dettagli, faccio notare che la carriera di Cardiff finisce ufficialmente nel 2007, quando l'uomo ha 92 anni, due anni prima della fine. E il documentario è incentrato, con fermezza, tanto sul suo ruolo paradigmatico nel sistema cinematografico, quanto sulla sua incredibile forza d'animo, sulla sua personalità gentile da englishman e soprattutto sul carattere modesto e cordiale che ne ha fatto un punto di riferimento per grandi nomi del settore, da cui, magari, come nel caso di celebri attrici, cogliere l'essenza recondita.