




"Catfish" di Henry Joost e Ariel Schulman è un'opera insieme accattivamente e repellente. Nel suo essere talmente finto da sembrare vero e talmente vero da sembrare finto, "Catfish" è un pugno allo stomaco per nulla disatteso ma, in un modo o nell'altro, doloroso. Film per "stomaci" forti e aperto ad una riflessione ambigua e difficilmente sostenibile per chi non accetta di restare in bilico sull'annosa questione che separa finzione e realtà.
La prima reazione, a dire il vero, è di accettazione in fieri di quello che accade dinanzi a noi. Se una cosa sa fare "Catfish" è quella di alimentare la "sospensione di incredulità" fino a dilatarla oltremisura e a giocarci in modo intelligente e mai banale. In questo senso, il film è sorprendente, per non dire "anti-scettico". Per godere di tale effetto, d'altronde è necessario non avere informazioni sull'indirizzo e sulle dinamiche della narrazione. La stessa visione del trailer può essere più che fuorviante. La natura di "documentario" e il carattere amatoriale (in realtà perfettamente indirizzato e tecnicamente per nulla di basso profilo) fanno il resto. Senza eccessi, "Catfish" diventa una storia di "cazzeggio" e "solitudine", di "gioia" e di "sofferenza lancinante". Quello che mi importa sottolineare è che, indipendentemente dalla veridicià reale, parziaria, ricostruita, da copione, "Catfish" sia una'opera, inquadrata in qualsiasi modo, di un'intelligenza e di una forza emotiva difficile da riscontare altrove. Accogliendo la tesi sostenuta dai registi, arriveremmo a considerare il film come un puro atto di forza e quasi di plagio nei confronti della protagonista sfortunata, con un ribaltamento dell'ottica fornita dall'opera e una visione dei personaggi-nattatori-registi più che negativa, macchiavelliana, amorale. Accettando la tesi che si tratti di un'opera di finzione costruita con abilità, oltre ad essere presenti elementi non giustificabili (come l'impiego di due ragazzi con un handicap piuttosto marcato e una strumentalizzazione del dolore comunque amorale di suo), la pellicola funziona per la capacità di inventiva e l'uso scaltro della macchina da presa, quasi citazionista, e in grado di giustapporre "atmosfere" provenienti da generi cinematografici diversi per un copione intenso e carico di riflessioni generali in sè. Proprio la "sospensione di incerdulità" diventa un marchio di riferimento chiaro, capace di affrescare un orizzonte tematico molto novecentesco (e soprattutto cinematografico), quello del "relativismo" ontologico. Da vedere.
