Dogtown and z-boys

Creato il 22 agosto 2014 da Veripaccheri


di: Stacy Peralta
USA - Documentario
2001 - 90 min
- A Jay Adams (03. 02. 1961 / 14. 08. 2014) -
"America calls,
I must go.
Oprah saviour,
I feel that low".
- Porcupine Tree -

E' difficile non riconoscere che parecchi dei modi in cui ci figuriamo l'America - al di la' del quanto e del come l'abbiamo frequentata - sono influenzati dal concetto (e dalle immagini che esso si porta dietro) di abbondanza, nel senso delle opportunità più varie che da quella terra sembrano scaturire come da una miracolosa sorgente sotterranea e che, corroborando le donne e gli uomini che la abitano - le loro ambizioni, i sogni e, perché no ?, le loro paure, gl'incubi più inconfessabili - mettono in fila idee, bizzarre ossessioni, producono oggetti, mode. In generale, reiterano scarti antropologici - quindi culturali - dando una mano non da poco alle prospettive di sopravvivenza del Sogno Americano.
In realtà, se ciò e' vero, lo e' in parte. E forse nemmeno, a ben vedere, per la parte più rilevante. A dire che la vitalità sociale americana, la sua in apparenza inesauribile capacita'/ostinazione di reinventare ogni volta se stessa - i propri simboli, i propri traguardi, le proprie manie/debolezze - dipende in maniera decisiva da una forza che lavora lontana dalla grande ribalta della Storia, nutrendosi di suggestioni, di slanci, d'ingenuità di primo acchito inconsistenti, vaghi o irrilevanti - se non addirittura velleitari o autolesionistici - ma che a volte riesce a coagularsi al punto da esprimersi compiutamente, andando ad incidere sul presunto "corso principale degli eventi" e, soprattutto, a rimanervi impressa, a durare davvero. E ciò in virtù di una sorta di "orgoglio minoritario" coltivato spesso ad un passo dalla dissoluzione sociale e dall'abbandono morale; di una emarginazione intransigente, in cui la voglia di riscatto non può mai essere del tutto disgiunta da una quasi feroce fedeltà a se stessi, alle proprie radici (reali o presunte, il risultato non cambia), a ostinazioni grandi o piccole purtuttavia tenaci - l'amicizia, di fondo, ma pure la precisione e la bellezza del gesto fine a se stesso, la spregiudicatezza e l'azzardo come gioco che non viene a noia, la febbre di esperienze e la frenesia dissipatoria della giovinezza.


Questo, per sommi capi, l'universo umano-fisico, psicologico, immaginifico, emulsionato da un documento come "Dogtown and Z(ephir) boys" del californiano Stacy Peralta, centrato sulle vite di un gruppetto di ragazzini (Peralta incluso) che nel cuore degli anni Settanta ha trasformato quell'affascinante, misticheggiante, americanissima stranezza che e' lo 'skateboard' in una delle più riuscite sintesi della cultura giovanile di massa. "Life's better in the sun" sembra sussurrarti dietro alla testa ogni fotogramma di quest'opera premiata più volte al Sundance, come uno dei tanti adagio buttato li' per scherzo magari su una spiaggia o arrivato da chissà dove al tavolo di un 'diner' tra una montagna di patatine e un frappe' al cioccolato. O, ancora, scivolato sopra un soffice praticello di college - e, certo, forse con la stessa estemporaneità destinato a finire tra le capaci mascelle di qualche mastodonte del marketing - eppure testardo abbastanza per trasformarsi ciononostante da ritornello dispettoso a piccola scheggia di "sottocultura", a dire nell'altra faccia - termometro sotterraneo, paradigma inconscio, immancabile compagno di strada - di quell'infatuazione/ossessione tanto americana che e' il "talento". La lingua e' quella di certe giornate di mezzo Maggio in cui tutto - sul serio e più ancora se hai dodici, quindici, sedici anni ("oh, sweet sixteen !") e sei un tipo curioso - pare a portata di mano, con la luce a diffondersi sulle cose striata di un'indulgenza ancora non sospetta, di dorate trasparenze seducenti appunto perché ingannevoli. Il cielo chiaro, come fatto di bruscoli turchese, che ha l'aria svagata di uno che si diverte perché ha appena scoperto che non e' poi così male essere sfaccendato (pari pari quella che ti sei ritrovato addosso dopo l'ultima "piega" - una bella curva larga che non finiva mai - il mondo zitto e calmo a srotolartisi dietro le spalle): ogni respiro più semplice e più morbido del vento tiepido che sfiora le palme altezzose dei boulevard e il "sentimento del deserto" un'espressione senza senso in bocca ad uno che probabilmente ha solo dormito male. Tutto ciò tenendo sempre ben presente che stiamo parlando di un particolare tipo di universo umano stratificato e in perenne convulsione quale e' quello americano in cui possono convivere, spesso gomito a gomito e quasi come se niente fosse, schegge di realtà in apparenza inconciliabili, tipo l'aderenza quasi inconscia ad un quotidiano sagomato a misura di un materialismo tanto ossessivo quanto istituzionalizzato e lo slancio, altrettanto ancorato al profondo, di sfuggirvi attraverso - ad esempio - una multiforme, imprevedibile, sovente pittoresca, ricerca della spiritualità. Stesso discorso per il denaro, "divinità" idolatrata pressoché acriticamente, nessuna più di lei implacabile, capricciosa ed esigente - vite forgiate, indirizzate, "spese", alla sua ricerca e (ovviamente effimero) possesso - autorita' prima, motore-delle-cose da far, comunque, in qualche modo, entrare in relazione con le giravolte, le contorsioni dei sentimenti personali e degli affetti, e così via...

N ella seconda meta' degli anni Sessanta il surf si era avviato con decisione oltre i limiti che circoscrivono i gesti e l'attitudine mentale di una disciplina sportiva, intraprendendo la codificazione - per il tramite di un fitto intreccio di rimandi simbolici, disparate suggestioni "filosofiche" e formali, istanze di fondo da sempre tentate da atteggiamenti anticonformisti e anti-sistema - di una vera e propria "religione laica" ["We will be conscious of our sanctity/That ripens as we develop.../Of our roots,/Beautiful roots/Because they are under the surface/Of our charm"//("Saremo coscienti della nostra santità/Che matura mentre sviluppiamo.../Delle nostre radici, /Radici stupende/Perché nascoste sotto la corteccia/Del nostro charme") - D. Thomas -], con i suoi riti (cavalcare/domare ma "sentire"/compenetrarsi con il Mare/Natura nella forma delle sue onde più alte e più lunghe); i suoi luoghi "consacrati" (un certo numero di particolari spiagge in giro per il mondo); le sue figure di riferimento nel ruolo di officianti speciali di un culto iniziatico precluso ai "normali" (i campioni - di varie nazionalità - in gamba al punto da distinguersi sia per la dedizione verso ciò che assurge a rango di vera e propria regola interiore, sia per la capacita' di innovare, magari impercettibilmente ma sistematicamente, i dettagli più minuti di uno stile che, come scopo ultimo, deve tendere alla fusione perfetta di forza e leggerezza, spavalderia e fluidità, competizione col rischio/preservazione dell'incolumità e suprema grazia). In parallelo - e su una scala solo quantitativamente inferiore - lo 'skateboard', cugino prepubere, diciamo così, del surf, condivide con il più vistoso parente lo stesso spirito di sfida agli elementi (ecco qui riaffiorare uno dei tratti distintivi dell'"homo americanus"); l'identica "presunzione" di protrarre in una serie d'"infiniti minimi" l'illusione della giovinezza in guisa di bolle di tempo perfettamente autosufficienti perché separate dal corso monotono dell'ordinarieta', sfoggiando, in aggiunta, una sorta d'ingenuità involontaria che in parte riassorbe la componente atletica per trasfigurarla in una dimensione ideale, quasi favolistica (miriadi di Peter Pan che "volano" su una tavola a rotelle...).

P eralta, esponente di punta dello Zephir-Team - assieme a Craig Stecyk, ennesimo rappresentante atipico di una certa fauna a stelle-e-strisce, a meta' fra acuto osservatore di tendenze della più spicciola quotidianità a prima vista insignificanti e narratore idealista di comportamenti insoliti o marginali (suoi gli articoli specialistici che agli albori dei Settanta intorno al nuovo evoluire dei Z-boys richiamano all'attenzione generale lo 'skate', semi-morto e semi-sepolto da poco meno di un decennio); assemblatore frenetico di conglomerati linguistici ed estetici eterogenei in potenza atti a produrre una sintesi coerente ed originale (tipo un'inedita grammatica, anima gemella di un'iconografia aggressiva, i contorni di entrambe le quali imbevute di arte povera, di graffitismo, di slogan e micromitologie nate e cresciute in ristrette comunità suburbane, come che sia sempre e comunque immediatamente riconoscibili, in modo da solleticare il volubile gusto giovanile) - racconta il suo partecipato "soul mining" e quello dei compagni di avventura con una punta di comprensibile autoindulgenza nostalgica ma pure col sincero trasporto di chi vuole trasmettere - anche se "solo" per immagini - l'entusiasmo spontaneo e, per quel suo semplice bastare a se stesso, a momenti sprezzante, di una parentesi irripetibile, sorta di "primavera sacra" che segna, da un lato, il precoce passaggio alla maturità di un pugno di ragazzini pressoché tutti provenienti da famiglie proletarie e "difficili"; dall'altro, l'invenzione e il successivo affinamento di movenze agonistiche che prima non esistevano e che avrebbero posto le premesse per la posteriore ridefinizione in chiave "moderna" del surf-a-rotelle. Peralta fa questo attraverso l'utilizzo di molti materiali di repertorio e di (presumibilmente) un corposo archivio privato - fotografico e filmico - con sagacia montato secondo il ritmo nervoso di un'alternanza di dichiarazioni 'ad hoc' rilasciate da alcuni componenti del gruppo originario - Tony Alva, Jay Adams, Peralta stesso, Bob Biniak, Jim Muir, Shogo Kubo, Wentzle Ruml, Peggy Oki et, nonché dai "fratelli maggiori", istruttori, consiglieri spirituali, costruttori di tavole, coordinatori della banda, Skip Engblom e Jeff Ho - impegnati a ricollegare i fili sparsi delle proprie origini e della propria passione, e istantanee in movimento, persino al limite del fotogramma-per-fotogramma, delle discese, delle curve, dei piegamenti, dei salti, delle giravolte, dei "surfisti sull'asfalto" (per intendersi, l'insieme dei cosiddetti "tricks", alla lettera "trucchi" intesi come "giochi di abilita'", ma pure, e sembra davvero su misura, "scherzi"): il tutto che congiura abilmente per dare vita ad un interessante connubio tra gli esperimenti fotografici sulla cinesia umana di Muybridge e le variazioni cromatiche e spaziali legate alla velocità dei Futuristi.

N ato nei tardi Cinquanta come trastullo forzoso per surfisti orfani del proprio 'ubi consistam' d'elezione (sul settore di costa californiano teatro della vicenda di Peralta e co., le onde migliori scemano dopo le dieci del mattino. Era quindi giocoforza diventato impellente, per mantenere alto il livello di adrenalina e divertimento, "inventarsi" qualcosa o reinventarlo), lo 'skate' macina i suoi primi chilometri a mo' di miniaturizzazione diretta dell'attività madre. "Surf a rotelle", allora, s'e detto, da praticare più o meno ovunque, a qualunque ora del giorno, nei vicoli e nelle strade asfaltate, preferibilmente disegnate come piani inclinati. Stringendo il campo, alla congiunzione fra Santa Monica Sud, Venice e Pacific Ocean Park (detto POP), sorge la Dogtown del titolo, sobborgo, ai tempi della nostra storia in avanzato degrado, che aveva conosciuto, una manciata di anni prima, un effimero periodo di gloria quando la contagiosa bizzarria e il senso del bislacco dell'indole americana s'erano ripromessi di metter mano all'area meridionale di Venice con l'intento di cavarne una via di mezzo tra il luogo di villeggiatura e il parco giochi ("Il fulgido, aurato spettacolo della California.../Terre bagnate d'un'aria più dolce e preziosa, più sana, vallate e picchi montani.../Una razza formicolante, operosa, che si stabilisce e si organizza ovunque.../Popolose città, le più recenti invenzioni, i vapori dei fiumi, le ferrovie, le molte fattorie rigogliose, le macchine/E legno e grano e uve, e i terreni auriferi" - W.Whitman -). Qui i futuri Z-boys, amici da sempre, masticano poco i libri scolastici. Più che altro fanno surf e lo fanno molto bene. Logico, di conseguenza, che integrando gli sforzi su un altro "tavolo da gioco" in breve affiori un'idea tanto semplice quanto spericolata - perseguita, tra l'altro, di puro istinto e per cocciute sperimentazioni sul campo - : trasferire "di peso" l'armamentario dinamico del surf (postura, equilibrio, spinta del baricentro) - in specie il bagaglio tecnico del fuoriclasse hawaiano Larry Bertlemann - dall'oceano alla strada, ossia sullo 'skate'. Operazione a prima vista banale, se non fosse che fino a quel momento la pratica corrente s'era limitata ad un numero esiguo di combinazioni che non andavano molto al di la' dello slalom tra ostacoli posti ad una determinata distanza e di una risicata cerchia di manovre; e che la natura stessa delle soluzioni possibili in piedi su una tavola a mollo tra le onde, non poteva prescindere - al momento di spostarsi sulla terraferma - da un totale cambio d'impostazione da parte di colui che intendeva completare quello spostamento, virando la teoria in prassi. In altre parole: 'surfers' e 'skaters', come accennato, di certo erano parenti e sovente indossavano uno i panni dell'altro ma non erano chiamati a fare esattamente la stessa cosa. A conforto dei secondi e di una specialità - e' bene ribadirlo - il cui esercizio dalla meta' degli anni Sessanta era andato via via riducendosi fin quasi a sparire, interviene un cambiamento che ha tutti i crismi della rivoluzione e che, come spesso accade nelle rivoluzioni, ha a che fare con la materia e i suoi manufatti: cominciati i Settanta (1972) un surfista della costa Est, Frank Nasworthy, escogita ruote composte di Uretano - un derivato del petrolio - a sostituzione di quelle in commercio fatte di pasta argillosa, in perenne conflitto con le asperità e le trappole dell'asfalto. E' la luce ["The waves grew sleepy - breath - did not/The winds - like children - lulled/Then sunrise kissed my chrysalis -/And I stood up - and lived -"//("Le onde si assopirono - il respiro - no -/I venti - come bambini - si quietarono - /Poi l'alba bacio' la mia crisalide -/E io mi alzai - e vissi -") - E. Dickinson]. Si guadagna subito in velocità, in aderenza, in stabilita'. Cominciano ad essere praticabili fantasie e angolazioni un attimo prima confinate all'iperbole. Si riduce drasticamente la distanza che separa lo scorrimento continuo nell'acqua da quello vincolato dall'attrito sulla terra: per lo Z-team, in particolare, l'avvento delle ruote in Uretano (modello Cadillac) e' paragonabile alla leggendaria leva con cui sollevare il mondo. Peralta, a sottolineare lo scarto, incalza l'occhio con una serie di rapidissimi frammenti colorati o in b/n in cui si susseguono e non di rado si sovrappongono le traiettorie di Adams, Muir, Biniak, Alva e soci, ognuna di esse caratterizzata - al netto delle singole "interpretazioni" - dalla tendenza a stare molto bassi e compatti sulla tavola e a conservare ad ogni passaggio, ad ogni inversione, il massimo di fluidità possibile nella realizzazione della sequenza. Nascono gli "Z-boys". E' nato uno stile.
TFK
- parte prima -
(tra una settimana la seconda parte)


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