Si chiude un giorno dopo la Conferenza delle Parti Onu sul cambiamento climatico con le previsioni della vigilia confermate, se non addirittura peggiorate. Il Presidente qatariota della COP, già dirigente di Qatar Petroleum, riesce a far mantenere in carreggiata il negoziato, che viene però svuotato di significato. Nasce Kyoto 2, si raccolgono le prime poche risorse per il Fondo verde, ma una lotta seria al climate change è di là da venire. Anche per il Governo italiano, ormai in crisi politica.
Avrebbe dovuto chiudere i battenti alle 18 di venerdì scorso. Abdullah Bin Hamad Al-Attiyah, Presidente della COP18 ex dirigente di Qatar Petroleum, ha pensato bene di mandare tutti a casa 24 ore dopo, cercando di salvare il salvabile. Rimane in piedi un negoziato traballante con l’annessa burocrazia: quello che sarebbe dovuto essere il semplice hardware grazie al quale decidere il software di un deciso cambio di rotta, sta diventando il senso stesso di tutta la costruzione. Con due motivi di preoccupazione: la mancanza di impegni adeguati al rischio che stiamo correndo ed il pericolo che questa lenta guerra di posizione cominci ad intaccare non solo i contenuti di un possibile accordo globale, ma le basi stesse della Convenzione Onu.
Lo ha chiarito senza tanti giri di parole Todd Stern, caponegoziatore americano alla COP durante una delle “stock plenary”, le assemblee plenarie di venerdì in cui veniva fatto il punto della situazione dei negoziati. Secondo il capo delegazione USA il nuovo accordo globale futuribile non potrà “sottostare ai principi istitutivi della Convenzione“. Che tradotto dal gergo diplomatico fa intendere che concetti come “equità” e “responsabilità storica e differenziata”, secondo cui chi ha inquinato di più per più anni deve impegnarsi e pagare di più, dovranno essere ripensati alla radice.
La Conferenza si chiude inventando un nuovo concetto, quello del nuovo“Doha climate gateway”, la porta d’ingresso per il futuro, perchè il pacchetto uscito dal Convention Center di Doha servirà come un vero e proprio “ponte” per passare dal vecchio regime di lotta al cambiamento climatico, basato su impegni vincolanti e su una prospettiva di chiara definizione delle responsabilità, a quello nuovo, dove sarà la parola “volontario” a tenere banco.
Come architrave del tutto, l’approvazione del cosiddetto Kyoto 2, il secondo periodo di impegni che come da Protocollo avrebbe dovuto porre le nuove condizioni di riduzione ai Paesi Annex1, quelli industrializzati e con obblighi di riduzione. Inizierà il 1 gennaio 2013 e si concluderà nel 2020, ma per ora è stata approvata solo la sua forma “legale” perchè nessun impegno sostanziale è stato preso sul taglio reale delle emissioni di CO2, di conseguenza se ne riparla il prossimo anno. A questo nuovo regime parteciperanno soltanto Unione Europea, Australia, Svizzera, Norvegia, che assommano sì e no al 15% delle emissioni totali, e la forte determinazione nel mantenere Kyoto è stato soprattutto per l’interesse economico rappresentato dai suoi meccanismi flessibili, come ad esempio il mercato del carbonio. Tra i pochi dati che vengono citati, la possibilità per i Paesi membri del Protocollo di tagliare entro il 2020 le proprie emissioni di una percentuale compresa tra il 25 ed il 40%. Se si considera che l’UE ha già raggiunto il 17% e che secondo Matthias Groote, Presidente del Comitato su Ambiente, salute e sicurezza alimentare del Parlamento europeo, agevolmente raggiungerà il 25-26% entro il 2020 senza ulteriori sforzi, si può facilmente comprendere la semplicità con cui l’Europa si pone come paladina del clima.
Sul Green fund, aldilà degli stanziamenti unilaterali di alcuni Paesi come la Gran Bretagna , la Germania e la stessa UE che arriveranno a malapena a 7 miliardi di dollari totali, l’impegno delle comunità internazionale è sostanzialmente assente. Gli Stati Uniti si sono nettamente opposti ad ogni formalizzazione di impegni sullo stanziamento di fondi per sostenere politiche di taglio delle emissioni e di adattamento al cambiamento climatico. Nonostante le cifre del tornado Sandy che saranno caricate sul contribuente americano abbiano abbondantemente superato gli 80 miliardi di dollari. E nonostante i cittadini USA stiano cominciando ad associare i disastri atmosferici con il cambiamento climatico: Katharine Hayhoe, ricercatrice dell’istituto Texas Tech, ammoniva dalle pagine di USA Today che non si può più ignorare il cambiamento climatico, separando l’aumento delle temperature degli oceani dalla comparsa di tornado sempre più potenti, “sono due facce della stessa medaglia e penso che dovremmo vederle entrambe”, ha dichiarato.
E sono due facce ben evidenti anche nel nostro Paese, se si considera la temperatura media delle acque superficiali del Mediterraneo che sta mostrando durante gli ultimi anni delle “anomalie positive” sempre più frequenti, cioè temperature maggiori della media. Una delle possibili conseguenze sono eventi atmosferici più intensi in autunno, come le alluvioni in Toscana o il tornado a Taranto hanno dimostrato.
Di fronte a tutto questo il Governo italiano si è presentato con i compiti di casa in disordine. La bozza di Strategia energetica nazionale in discussione si focalizza soprattutto sui combustibili fossili: Italia come possibile “hub” del gas europeo, aumento delle trivellazioni petrolifere ed aumento dell’estrazione di metano. Di tutto questo però all’assemblea plenaria il Ministro Clini non ha parlato, citando solo la crescita esponenziale delle rinnovabili, ma senza chiarire che è proprio il suo Governo che sta contribuendo ad affossarle. Una strategia che Simone Mori, Direttore della Direzione Regolamentazione e Ambiente di Enel e vicepresidente di Assoelettrica, ha definito in un’intervista con Altreconomia come “eccellente”, benché abbia un orizzonte al 2020 a differenza delle politiche di ampio respiro che guardano ai prossimi venti o trent’anni, anche per dare maggiori certezze al comparto industriale.
Il Ministro Corrado Clini, in un incontro con la società civile a Doha, ha chiarito che si sta parlando di un documento immaginato una decina di anni fa e che è frutto di mediazione con il Ministero dello Sviluppo Economico. Ma questo è quello che l’Italia sta mettendo sul piatto della lotta al cambiamento climatico: gas, petrolio e, grazie ad Eni e ad Enel, tanto carbone.
L’IPCC, il panel di scienziati che studia il climate change, è stato più volte chiaro: picco delle emissioni entro il 2015 e poi discesa, ma la comunità internazionale che a Doha ha approvato il “Gateway” finge di non saperlo. Ed il nostro Governo, adesso anche in crisi politica, si guarda bene dallo scrollarla.
di Alberto Zoratti - http://www.altreconomia.it