Il Comune di Milano ripudia Dolce e Gabbana
Nonostante l’assessore abbia chiarito che le sue parole sono una sua opinione personale, i due stilisti hanno risposto duramente, in modo particolare Stefano Gabbana, che sul suo profilo Twitter ha scritto “Comune di Milano, fate schifo”, “Fate schifo e pietà”, e ancora “Vergognatevi ignoranti”.
A seguito di questa vicenda Dolce e Gabbana hanno dato il via a una iniziativa senza precedenti, chiudendo per tre giorni, nella città meneghina, le loro nove boutique, e affiggendo sulle vetrine gli articoli di giornale ingranditi, all’origine dello scontro con Palazzo Marino, e sopra i titoli la frase di protesta, tradotta anche in inglese: “Chiuso per indignazione”. Protestano gli stilisti perché hanno dato pregio, visibilità, lavoro e tasse alla città di Milano, inviando ai giornali anche un prospetto dal quale si evince che sono i quarti contribuenti della città, con un imponibile di 29 milioni di euro a testa.
La domanda è: “È giusto che il Comune di Milano neghi gli spazi ai due stilisti perché, pare, abbiano evaso le tasse?”.
Innanzitutto, se, come hanno affermato Dolce e Gabbana, sono i quarti contribuenti della città, significa che le tasse, almeno fino a un dato momento, le hanno pagate. E allora ci si chiede: “Stante così le cose, che senso avrebbe avuto non continuare a pagare? Perché hanno omesso di dichiarare i loro redditi?”. Evidentemente c’è bisogno di ulteriore chiarezza, anche perché la sentenza dei giudici di primo grado non è stata ancora letta.
Ma l’aspetto fondante, quello da cui non si può prescindere, è il fatto che la condanna per i due stilisti è stata stabilita in primo grado. Da cui vige il principio democratico della presunzione di innocenza fino al giudizio di ultimo grado, cioè quello della Suprema Corte di Cassazione. Al momento il tribunale ha posto a carico di Dolce e Gabbana l’omessa dichiarazione dei redditi, stabilendo una provvisionale da 500 mila euro a favore dell’Agenzia delle entrate, e una condanna per entrambi a un anno e otto mesi di reclusione. Visto che gli stilisti hanno già presentato ricorso avverso questa sentenza, occorrerà aspettare le risultanze della Corte d’Appello e, se necessario, la Cassazione. Fino a quest’ultimo giudizio Dolce e Gabbana sono presunti innocenti. Quindi non è lecito discriminarli e accusarli di un reato non ancora ratificato.
Altra domanda: “Nel caso Dolce e Gabbana fossero condannati anche nell’ultimo grado, le istituzioni come si dovrebbero comportare nei loro confronti? Dovrebbero boicottarli nella loro professione, o, come normalmente dovrebbe accadere – perché così non è - quando qualcuno ha pagato il suo debito con la giustizia torna in pari e prosegue con la sua vita, senza essere penalizzato per lo sbaglio compiuto?” L’azienda dei due stilisti produce prodotti di qualità sia per il mercato nazionale sia per quello internazionale, dando lavoro in Italia e all’estero, con un ottimo ritorno d’immagine per il nostro paese; senza tenere conto di quante altre nazioni sarebbero disposte ad ospitare un marchio come D&G. Nel caso i due stilisti fossero dichiarati colpevoli definitivamente, dovrebbero pagare secondo legge, ma allo stesso tempo si dovrebbe dichiarare chiuso l’incidente, senza stupide conseguenze da parte di chicchessia, a nessun titolo e per nessun motivo. È già accaduto ad altri personaggi noti di essere scoperti come evasori fiscali, come ad esempio il compianto Luciano Pavarotti e il campione di motociclismo Valentino Rossi, dove, in quei casi, – e questa non è la sede per ulteriori valutazioni in merito – si sono patteggiate le somme risarcitorie con l’Agenzia delle entrate. Ma non per questo sono stati criminalizzati, discriminati, anzi, hanno continuato con maggior vigore le loro importanti attività, continuando ad avere successo e dare buona immagine all’Italia.
L’essere additato come evasore fiscale – oggi ancor più, visti i sacrifici che i cittadini devono sostenere per la mancanza di denaro nelle casse dello stato – è un po’ come al tempo del colera, quando si veniva emarginati per evitare il contagio. Gli evasori sono visti come i parassiti della società, coloro che guadagnano immense cifre che poi nascondono nei paradisi fiscali, mentre i comuni cittadini devono pagare la sua e la loro parte. Ma quel che è peggio, i cittadini vessati dall’imposizione fiscale sono costretti – in moltissimi casi – a contrarre prestiti per poter continuare a vivere – se poi in fondo questo si può chiamare vivere, e non sopravvivere – aumentando così il debito privato, vero spauracchio della crisi socio-economica in atto e che non accenna a scemare.
In conclusione, sappiamo bene che dell’evasione fiscale fanno parte i grandi numeri, con una stima ben oltre i cento miliardi di euro, e che non è troppo facile scovare questi emeriti sconosciuti al fisco italiano. Tuttavia, quando invece si riesce a individuarne qualcuno, occorre darne ampia pubblicità – ma solo dal momento della certezza - e si deve fare in modo che questi paghino fino all’ultimo centesimo, senza sconti e senza patteggiamenti, eventualmente anche rifacendosi sui loro beni mobili e immobili in Italia o all’estero. D’altro canto, una volta saldato il debito, e facendone un sorvegliato speciale, gli si deve permettere di continuare a lavorare, a produrre, a far circolare il denaro, a costruire nuovi posti di lavoro. Senza alcuna discriminazione.