Aprì gli occhi sul fondo della notte con l’affanno – stava ancora sudando – ma senza ricordarsi di aver avuto alcun sogno.
Voltò lo sguardo verso l’altra metà del letto e la vide che dormiva. Gli occhi chiusi, l’espressione distesa, la testa ad affondare nel cuscino. Non l’ho svegliata pensò.
Sentiva, dalle persiane della finestra socchiusa, una corrente di brezza e odore di felci sollevare la tenda e andare ad allargarsi tra l’armadio a muro e il letto – qualcosa a cui non era abituato e che non si aspettava –, annusò nuovamente l’aria imbevuta di quell’odore scivolando con tatto fuori dalle lenzuola. Era estate. Dormivano nudi. Si infilò la vestaglia legandosela intorno alla vita e si avviò verso il balcone. Attraversando il corridoio nella penombra prese quasi senza pensarci un block notes, una penna, e un pacchetto di Pall Mall rosse. Aveva voglia di scrivere. Aveva voglia di accendersi una sigaretta e buttare giù appunti per il giorno dopo. O magari disegnare – non disegnava dai tempi della scuola. – Ma non appena raggiunse la soglia del terrazzo si fermò, e quasi perdendo l’equilibrio, fece un passo indietro e lasciò cadere le sigarette.
Si appoggiò allo stipite della porta. Si guardò attorno. Chiuse gli occhi. Li riaprì. Li richiuse. Li aprì di nuovo. Il fiato ricacciato in gola dagli odori e dalla sorpresa.
Se fosse un sogno pensò, me ne accorgerei – sapeva come risvegliarsi da un sogno, conosceva la sensazione che un sogno sa dare a chi ci si trova d’un tratto dentro – non sto sognando concluse.
C’era, davanti a lui, una foresta.
I condomini. I tetti degli edifici oltre l’incrocio. La piazza. Le strade. I parcheggi. Ogni cosa sommersa sotto una mano di verde, ragionò. Ogni cosa. Si mise a cercare con lo sguardo un appiglio familiare senza incontrare altro che vegetazione. Il momento successivo a una nevicata pensò di nuovo – quando si fatica a riconoscere ciò che un attimo prima era evidente – ma con fronde al posto dei fiocchi. Foglie, cortecce. Alberi ad alto fusto e dalla forma allungata, ma densi, che emergevano da un manto d’altre piante più compatte.
Fece per tornare indietro – si voltò – e voltandosi vide che la foresta aveva inglobato anche il suo appartamento. O prima non me ne ero accorto, pensò, o mi sta ancora crescendo attorno. E cercò, nel ragionare, di non farsi aggredire dalla paura che adesso sentiva maturargli addosso. Ricominciò in questo stato ad attraversare il corridoio – voleva raggiungere la stanza da letto – ma si ritrovò in un sentiero di liane che conduceva verso il suolo. Mi sono perso realizzò, e nel realizzarlo cominciò a chiamarla.
“Elena!”, si mise a gridare.
La cercava e intanto avanzava. E avanzando si immergeva nella foschia. Ma più gridava, e più sentiva il fiato venirgli a mancare. Più avanzava – con lentezza, a fatica – più si faceva largo in lui la convinzione di non essere solo.
C’erano fruscii, movimenti. C’era – alle volte ne pareva sicuro, altre si convinceva d’esserselo solo immaginato – qualcuno. C’erano diversi qualcuno. Qualcun’altro si stava spostando, da qualche altra parte, oltre a lui. Gli parve di sentire grida, di udire urla, nomi. Gli parve di captare voci che cercavano altre voci. Richieste d’aiuto, pensò. Altra gente che come me si è svegliata nel mezzo della notte e adesso sta vagando. Ma la foresta assorbiva i suoni. Tutto questo è pazzesco mormorò liberando i lembi della vestaglia dal morso degli arbusti.
Camminò in questa maniera senza smettere di chiamare, finché non sentì il fiato mancargli, e allora si fermò. Si accorse solo in quel momento del block notes e della penna che ancora stava tenendo nella mano.
Scrivere ecco quello che doveva fare. Mettere insieme un documento, una prova, una traccia. Quello che devo fare disse tra sé, è lasciare una testimonianza di ciò che sta accadendo.
Aprì il block notes e cominciò con furia a prendere appunti. Scrisse: svegliato nel mezzo della notte. Odore di felce. Uscito sul… sul… ma non riuscì ad andare avanti. Uscito sul… ripeté, su… su quella cosa che… – che esce fuori dai… ragionò. Come si chiamavano?, quelle cose alte, dentro cui la gente… ah, disse palazzi, ecco. –
Uscito su quella cosa che esce fuori dai palazzi mormorò – d’accordo, disse, ma quella cosa, come si chiama? Quella cosa che esce fuori dai, mugugnò, e la gente ci… – E più cercava di ricordarsene più sentiva le parole scivolare via. Andare in profondità, da qualche parte, nella sua testa.
Tornò a fissare il foglio su cui stava scrivendo.
… Uscito sul… Lesse. Uscito… mormorò. Poi si bloccò.
Rannicchiato nello scuro di un’enorme radice, guardò nuovamente il block notes che teneva sulle gambe e cercò di ricordarsi cosa stesse facendo. Cercò, con tutto se stesso, di ricordarsi come si faceva a fare… a fare quello che stavo facendo mormorò.
Sfogliò le pagine all’indietro. Quindi nuovamente in avanti. Poi di nuovo all’indietro. Mettendosi più volte a schiacciare il dito sulle parole. Con lentezza. Sforzandosi. Concentrandosi.
Finché si ritrovò ad osservarsi la mano. Si ritrovò a studiarsi i polpastrelli e il palmo, e ciò che il palmo conteneva.
Stava reggendo questa cosa, questa cosa appuntita farfugliò, ma che…
Guardò nuovamente il block notes. C’erano tracciati sopra segni, linee dritte, curve, unite, disunite. Cose che lui aveva fatto, senza dubbio, ma non si ricordava più come.
E provando a muovere sopra il foglio quella cosa appuntita, vide che un liquido scuro usciva da una delle sue estremità, ed era con quello, – era con quella cosa – che si potevano tracciare i segni.
E questo si mise a fare allora. Si mise a tracciare forme, prima.
E linee. Semplici, ondulate linee, poi.
Ma non durò a lungo. Perché più andava avanti e più sentiva il bisogno di strappare i fogli su sui stava scarabocchiando, e mentre cominciava a farlo – mentre cominciava a stracciare l’interno del block notes – l’avvertì, con certezza questa volta.
All’inizio il rumore, a seguire la figura.
Sbucò in un balzo e sparì nel varco delle piante da cui era fuoriuscita. Il corpo coperto di graffi, il sudore ad avvolgerle la pelle.
Lui gettò gli stralci del block notes nelle radici, e con la penna stretta in mano si mise a inseguirla.
Sentiva una scia di paura precederlo – un odore simile al suo –, qualcosa che pareva chiamarlo e insieme smuovergli le interiora. Torcergli gli intestini.
Le fu addosso nei pressi di alcune rocce. La buttò a terra. Le saltò sopra. E i loro corpi si batterono finché le forze di lei non vennero a mancare.
Allora la schiacciò energicamente, fronte e petto sulle foglie. E sollevandola dai fianchi avvertì un fuoco risalirgli nelle gambe, l’odore divenuto aria. Fu tenendola così piegata e respirando con foga quell’aria che cominciò a montarla.
Quando l’altro gli sbucò davanti non aveva ancora finito. Lei approfittò del momento per liberarsi dalla presa e scivolare via. La vide, in un istante, raddrizzarsi e respirare, e sparire in un balzo nella vegetazione.
L’altro intanto lo osservava e grugniva.
Cominciarono a muoversi in circolo.
Cominciarono a muoversi in circolo e a ringhiare.
Poi lui scorse la penna abbandonata sul terriccio, e afferrandola si fece sotto e colpì l’altro sulla spalla.
Quello indietreggiò cacciando un grido. Più di rabbia che di sofferenza. Si osservò il braccio sanguinante e ringhiò nuovamente. Torse la testa come se stretto da una pressa invisibile e a sua volta sparì tra le felci.
Lui a quel punto lasciò cadere la penna a terra. E nel farlo si dimenticò di averne mai posseduta una. Si liberò di quel che restava della vestaglia e per un momento sollevò la testa a sbirciare il cielo. Cominciava ad albeggiare, le stelle ricacciate una dopo l’altra nella luce.
Si accucciò sulle mani annusando il terreno. E così facendo tornò a nascondersi nella foresta.