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Iniziata malissimo. Al mattino sulla strada in direzione Fiumicino un motociclista mi sorpassa a gran velocità in prossimità della curva e si rimette velocemente a destra, tagliandomi la strada; scivola, cade, sbatte contro il guardarail. Si rialza intero e pimpante. Avrei potuto ammazzarlo. Ci penso fino a sera. Poi, dopo cena, in piazza Anco Marzio al caffè storico all'aperto con pianobar così così nella Ostia dai pochi eventi apprezzabili, forse punita per la sua mafia endemica. C'è molta gente, un pubblico multietnico. Cerco di vedere e capire. Moltissimi, anche in piedi nella piazza affollata, sono entusiasti per l'imitatore di Renato Zero. Lo accompagnano e fanno un sacco di foto con l'iphone. Il mio iphone, come sempre, riposa a casa. Vorrei essere come tutti. In cerca di normalità, oso cantare anch'io "i migliori anni della nostra vita". Diciamo che mi vedo e mi sento cantare. Al tavolino accanto sento la tristezza dell'anziana signora elegante, con figlia e genero: la tristezza di una vedova. Dall'altra parte una coppia si prende cura del figlio down. Due vigilesse intanto riportano una bimba smarrita a una madre cinese che piange ringraziando. L'Italia della cura. In piedi a far foto, felice, c'è una graziosa, giovane nera, dal look molto occidentale vicino all'amato partner bianco. Mi accorgo che lei è incinta e un po' contribuisce a rimediare allo scarso entusiasmo degli italiani a procreare. Poi ad un tavolo liberatosi siede una coppia che mi lascia perplesso, anzi infastidito. Lui ultrasessantenne, forse mio coetaneo, lei, un'adolescente araba, carina e imbarazzata. Chissà perché. Formulo pensieri sgradevoli. L'Italia della cura, quella che vuole essere felice di qualcosa, ma anche un'altra che approfitta.