Nel segno dell’incertezza va letta la personalissima interpretazione che Domenico di Pace, detto Beccafumi dal cognome del suo protettore, il nobile Lorenzo, diede della prima Maniera. Un’incertezza derivantegli dall’essere periferico rispetto al fermento fiorentino e dal non aver avuto una formazione di livello in età adolescenziale, a differenza del Rosso e del Pontormo.
Nato presumibilmente nel 1486 nelle campagne senesi, vicino a Montaperti, località della vittoriosa battaglia contro i fiorentini del 1260, Domenico era figlio di contadini di un podere di proprietà di Lorenzo Beccafumi, il quale lo prese a servizio per le sue attitudini artistiche. Dopo un apprendistato artigianale senese, arricchito dallo studio delle opere che il Perugino aveva lasciato in quegli anni in città, si presume che solo sul finire del primo decennio del XVI secolo, dopo aver superato abbondantemente i vent’anni, soggiornò a Firenze, entrando in contatto con la pittura di Frà Bartolomeo, Mariotto Albertinelli e Piero di Cosimo e studiando le opere dei maestri della generazione precedente, in particolare Filippino Lippi.
Meglio documentato risulta il suo soggiorno romano che Vasari sostenne essere avvenuto tra il 1510 e il 1512, ma da alcuni storici moderni posticipato di alcuni anni. Qui, il non più giovanissimo apprendista ebbe modo di ammirare i lavori di Michelangelo e Raffaello, rispettivamente per la Volta della Cappella Sistina e per la Stanza della Segnatura, che i due maestri stavano portando a compimento. Probabilmente fu al seguito del suo conterraneo Baldassarre Peruzzi negli affreschi che andava eseguendo per ville e palazzi romani ed affrescò egli stesso la facciata di una non meglio precisata casa in Borgo, di cui non rimane traccia.
Al successivo rientro a Siena sono ascrivibili le prime opere documentate: gli affreschi della facciata del Palazzo Bardi, di cui rimane un disegno preparatorio al British Museum, e la decorazione della Cappella del Manto nell’Ospedale di Santa Maria della Scala, di cui ci sono pervenuti il lunotto ad affresco con L’incontro di Anna e Gioacchino e l’olio su tavola con il Trittico della Trinità, conservato alla Pinacoteca Nazionale di Siena. Sia pure nell’evidenza degli influssi summenzionati e di una non ancora piena padronanza dell’impostazione, il Beccafumi dimostrò, particolarmente nella Trinità, di aver già sviluppato una sua personale rilettura dell’insegnamento dei maestri, orientata verso un’ardita sperimentazione coloristica e luministica.
Per oltre due decenni l’artista dimorò stabilmente a Siena, ottenendo prestigiose commissioni. Intorno al 1515 dipinse le Pale di San Paolo in trono e Stigmate di Santa Caterina, con le quali raggiunse un primo equilibrio della sua maniera, risolvendo le molteplici influenze (oltre ai già citati, da menzionare Leonardo e Durer) in una più meditata resa coloristica e luministica. Successivamente fu impegnato negli affreschi con lo Sposalizio e il Transito della Vergine dell’Oratorio di San Bernardino, in cui ebbe un fecondo confronto con Il Sodoma. Sul finire del secondo decennio, iniziò il lavoro per i mosaici del pavimento del Duomo senese, opera che, a varie riprese, si protrasse per quasi un trentennio e che diede al Beccafumi grande fama tra i contemporanei.
Dopo un probabile breve soggiorno romano, nei primi anni venti fu impegnato negli affreschi con Episodi della storia di Roma per il Palazzo Bindi-Sergardi, in cui subì l’influsso delle Logge Vaticane di Raffaello nel portare avanti un confronto col classicismo accademico, ribadito un decennio più tardi negli affreschi per la Sala del Concistoro di Palazzo Pubblico. Nella Natività di San Martino, databile al 1524, il Beccafumi raggiunse una prima maturità della sua Maniera, contenendo gli eccessi sperimentali in un’atmosfera più serena, debitrice della lezione raffaellesca.
Di difficile datazione le due Pale con San Michele e la caduta degli angeli ribelli, che si volevano eseguite tra il 1524 e il 1530 per la Chiesa di San Nicolò al Carmine. La prima versione, oggi alla Pinacoteca Nazionale, dalle forme e dai colori cupi e disgregati, la si voleva lasciata incompiuta e sostituita dalla seconda, dai colori accesi e dagli stupefacenti bagliori, con Dio che viene inserito troneggiante e San Michele scalato in posizione intermedia, ancora custodita nella sede originaria. Ma l’esistenza di fogli in cui disegni del San Michele si ritrovano mescolati a studi sul Giudizio di Michelangelo, unitamente all’indubbia influenza del capolavoro michelangiolesco, farebbero propendere per una ripresa del lavoro lasciato incompiuto posteriore al suo ultimo soggiorno romano del 1542-43, in cui ebbe modo di vedere il Giudizio, inaugurato nel 1541.
La prima metà degli anni trenta fu impegnata nei già citati affreschi con storie antiche di Palazzo Pubblico. Successivamente, stando a Siena, eseguì i dipinti Mosè che spezza le tavole della legge, Il castigo del fuoco celeste e I quattro Evangelisti per il Duomo di Pisa, coi quali dimostrò di aver raggiunto padronanza ed equilibrio dell’impostazione anticlassica. Dopo un travagliato soggiorno genovese, compiuto dopo un lungo corteggiamento di Andrea Doria, e il suo ultimo summenzionato viaggio a Roma, negli ultimi anni Beccafumi raggiunse un’armonia miracolosa, stemperando l’arditezza della sperimentazione nei colori diafani e nel delicato plasticismo della Natività della Vergine della Pinacoteca Nazionale e dell’Assunzione di Sarteano. Non pago, approfondì la tecnica xilografica fino a raggiungere esiti virtuosistici e diede prova di abilità scultorea con gli Angeli reggicandelabro per il Duomo di Siena. Si spense nel 1551 all’età di 65 anni.