La mia ammirazione, la mia devozione per Don Andrea Gallo non mi permettono di scrivere niente, non sono all'altezza per parlare di lui. Non sono all'altezza di raccontare la sua storia, le sue battaglie, di quando è stato a Perugia. Non sono all'altezza di dire che io credo nella sua Chiesa, nel Gesù che lui ci ha proposto durante la sua vita. Non sono all'altezza per dire che se le mie figlie faranno la prima comunione e la cresima è solo perchè so che tra tutta la merda che c'è dentro la Chiesa c'è e ci sono tanti Don Andrea Gallo. Uomini che nonostante le debolezze e gli errori mettono sempre la figura di Gesù al primo posto. Non sono all'altezza e per questo lascio la parola a chi all'altezza lo è.
DON GALLO, IN ALTO IL CALICE!
Stasera voglio piangere. So che non lo dovrei fare, che lui forse non vorrebbe ma non ce la faccio. Prendo in bocca il toscano, proprio quello che fumava anche lui. Tiro una boccata. L’unico pensiero che mi viene è che domattina parlerò di don Gallo, ai miei ragazzi.Voglio far finta che non sia successo, che sia uno dei suoi “scherzi da prete” come quando mi scrivevi via mail “non so se riesco a venire” ma poi trovavi sempre la forza per esserci. Racconterò ai miei bambini che abbiamo avuto il grande dono di avere in questo Paese un uomo che è sempre stato dalla parte di chi non aveva voce. Tu, caro Andrea, hai sempre prestato la tua voce. Parlerò alla mia classe di un uomo che ci ha sempre messo la faccia. Ricordi quella volta che sei venuto nella piazza del mio piccolo paese democristiano a sostenere la mia campagna elettorale come candidato sindaco: “Dov’è il parroco stasera, perché non è qui?” urlasti al microfono guardando la canonica. Tu sei stato un uomo che ha sempre scelto la parresia come quella volta che a Bagnolo Cremasco, mandasti letteralmente a tal paese una signora benpensante che ti attaccava per le tue posizioni in merito alle questioni della vita. Racconterò ai miei ragazzi che tu non parlavi degli ultimi, dei drogati, delle puttane, dei transessuali, dei disoccupati solo dal pulpito ma vivevi con loro, pranzavi con loro, celebravi la messa con loro. In quel salone al primo piano della piccola canonica di San Benedetto al Porto, ti ho incontrato più volte tra un ex detenuto, un ex tossicodipendente. Erano i tuoi compagni di strada. Racconterò ai miei ragazzi che abbiamo avuto un uomo che non ha mai leccato il culo, questa è la parola giusta, a nessun politico, a nessun vescovo o cardinale. Caro Andrea domani farò sentire queste tue parole ai miei ragazzi: “Il potere vuole rendere invisibile qualsiasi diverso, dal detenuto, al migrante, al tossicomane, al rom, all’handicappato. Chi non è produttivo per loro non è persona”. Rileggerò come piaceva fare a te il Vangelo secondo De Andrè e quella lettera che tu scrivesti per lui quando se n’è andato: “E’ per te, canto con te, con tanti ragazzi e ragazze della comunità, che vivono con me nella mia città di mare che è anche la tua. Anch’io ogni giorno come prete verso il vino e spezzo il pane, per chi ha sete e ha fame. Tu Faber, mi hai insegnato a seguirlo non nelle mura del tempio ma tra le strade, tra i vicoli più oscuri, nell’esclusione, nell’emarginazione, nella carcerazione. E ho scoperto con te camminando in via Del Campo che dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori. La tua morte ci ha migliorati Faber, il tuo ricordo, le tue canzoni ci stimolano ad andare avanti. (…) E se credete ora che tutto sia come prima perché avete votato ancora la sicurezza e la disciplina, convinti di allontanare la paura di cambiare, verremo ancora alle vostre porte e grideremo ancora più forte e per quanto voi vi crediate assolti siete per sempre coinvolti. Caro Faber parla all’uomo amando l’uomo”. Caro Andrea, domattina pregherò con la Costituzione come tu mi hai insegnato, insegnerò ai miei alunni ad “andare in direzione ostinata e contraria” e ancora una volta canterò con te “Bella ciao”. Starò solo da una parte: dalla tua parte.
In alto il calice Andrea.
dal Fatto Quotidiano di Alex Corlazzoli | 22 maggio 2013
DON GALLO, IL TRIBUTO DI GENOVA. COSTITUZIONE, BIBBIA E BANDIERA ROSSA.
L’edizione paolina della Bibbia aperta sul Qoelet. E la Costituzione, sottolineata a penna nei punti preferiti. E poi la bandiera della pace che avvolge l’estremità del feretro. Il cappello nero appoggiato sul vessillo rossoblù del Genoa, la squadra del cuore. Lo striscione del gruppo ‘Pé No Chão‘, gli “educatori di strada” di bambini e bambine delle favelas brasiliane. La maglietta del Giro d’Italia, la numero uno, con la scritta “Genova” sul fondo. Il drappo rosso dei partigiani della Valpolcevera. E fiori, caricature, messaggi, candele. Due registri pieni di firme e messaggi raccolti in meno di 24 ore. E’ anche questo la camera ardente di don Andrea Gallo, anzi, del “Gallo”, morto a Genova il 22 maggio nella stanza dove da giorni era assistito dalla grande famiglia di “Sanbe”, la comunità di San Benedetto al porto, da lui fondata negli anni ’70 per accogliere tossici, prostitute, emarginati in generale, chiunque, drogato o meno, non si sentisse parte di una società esclusiva che respingeva al di fuori i suoi figli meno omologati. Figli che oggi sfilano nella chiesa di San Benedetto per dire “io ci sono” con quel misto di riservatezza e fastidio per tanto clamore di flash attorno alla bara del Gallo. Sensazioni schive proprie dei genovesi o di chi Genova l’ha fatta sua vivendoci. Un uscio stretto con due scritte – “entrata” e “uscita” – a indicare la via al flusso continuo di persone venute a salutare “il don”.
Sfilano i volti scavati dall’eroina. Perché non c’è nessun’altra droga che rode così il corpo e i lineamenti di chi l’assume, mangiando giorno per giorno ogni eccesso di carne e lasciando sulla pelle il marchio perenne del “peccato”. “San Benedetto è la comunità più libera che esista. Non ci sono regole. Ci sei tu e il fuoco che hai dentro di tornare alla vita – spiega D. che con la ‘roba’ ha iniziato a 16 anni per poi smettere poco dopo, ma ricominciare a 28 e di nuovo smettere, questa volta “per sempre” a 32, “grazie al Gallo”, perché “Sanbe è la comunità più difficile dove io sia stato, ma anche l’unica che ha funzionato”. Perché “nessuno ti obbliga a entrare o uscire, ad avere dieci o venti sigarette, a fottere tutti i soldi della cassa comune e tornare a farti”. La porta, a Sanbe, è aperta. “Si entra che si è zero” e “si torna alla vita”. Si cade e ricade anche cento volte, ma “nessuno ti punta il dito contro”. Perché sei arrivato? Nessuno ti ha costretto. Vuoi andare? Vai. Vuoi restare? Resta. Insomma, “tu e solo tu decidi, è la tua partita, la tua vita”.
dal Fatto Quotidiano di Elena Rosselli del 23 maggio 2013