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Don Armando Manno sacerdote per sempre

Creato il 26 aprile 2011 da Cultura Salentina
Don Armando Manno

Don Armando Manno

Don Armando Manno per me significa respiro, memoria, immagine del tempo, che s’avvolge su se stesso, si siede sulla poltrona, e ti strizza l’occhio, come un vecchio amico che torna a trovarti all’improvviso dopo un lungo viaggio, e tu l’accogli con gioia, gli apri le braccia, gli offri il the e gli parli core core, o l’ascolti guardandolo diritto negli occhi.

Don Armando è tutto questo, calore, amicizia, conforto, ombra lunga del ricordo, che si fa elegiaco, talora malinconico, ondata di nostalgia, profumo intenso di mare, onda di risacca della Purità, Gallipoli, la sua storia, una larga fetta di storia che ha attraversato la mia esistenza d’ignaro giovane ufficiale delle capitanerie di Porto come una folata di vento, un turbine, una tempesta “perfetta”.
Gallipoli, il mio Sturm und Drang, una lunga passione, sentimento e fantasia che non smemora, che non muore, anzi che perdura, come tutte le cose che s’incidono profondamente nel cuore, e lo segnano in maniera indelebile, un lungo calco d’amore che durerà per sempre, fin quando vivrò, come la mia amicizia per don Armando Manno, il prete più prete che abbia mai conosciuto, così fiero e orgoglioso d’esser prete da non togliersi mai i segni, i distintivi, i simboli della sua condizione di sacerdote, il crocifisso, il colletto rigido bianco, e quella sua sottana nera nera, lunga lunga, pesante, ingombrante, che non si toglieva mai, neppure per andare a letto.

Ed è forse con qualche riluttanza che non si è fatto più fare la tonsura, la chierica, di cui andava parimenti fierissimo. Tutta la sua esistenza, respiro a respiro, grammo a grammo, ansito ad ansito, atomo su atomo, è interamente riversata, fusa nel crogiolo del sacerdozio, anche quando l’essere prete gli costerà amarezza, disillusione, dolore, solitudine, lacrime e disperazione. E’ voluto essere prete ad ogni costo, fin da piccolissimo, quando tutto lo allontanava da quel percorso misterioso, e lo è stato fino in fondo, fino al sacrificio talora doloroso della rinuncia e dell’obbedienza che gli costerà lacrime e sangue.

E tutto ciò emerge fin dalle prime pagine del suo libro, “Ricordi di un sacerdote gallipolino”, tip. 5 emme, 2008, in cui rievoca, in particolare, i tempi memorabili e favolosi degli anni 70-90, in una prosa semplice, piana, fatta di scansioni, evocazioni, elegiaco gioco della memoria che rivisita, con amarezza, ma senza acredine, anche i tempi dolorosi dello scacco e della umiliazione, un libro che è un dono prezioso per tutta l’intera comunità gallipolina, un libro – scrive Gino Di Napoli – di 70 pagine scorrevoli, sincere, che si leggono piacevolmente ed evidenziano l’amore, la lealtà e la trasparenza del comportamento di Don Armando, il suo costante richiamo ai punti di riferimento del suo sacerdozio, Don Milani, Martin Luther King, Don Primo Mazzolari, ( a cui va aggiunto l’amato curato d’Ars, suo santo prediletto, n.d.r), coerenti interpreti del messaggio cristiano e testimoni di indimenticabili battaglie per la diffusione della scolarizzazione, per la libertà, per il sostegno ai più deboli e per l’uguaglianza tra gli uomini, messaggio che il Nostro ha sempre posto in sintonia con l’obbligo dell’obbedienza ai superiori, anche quando le loro decisioni non sono condivise.

E Don Armando non ne fa un mistero. Dice perché, talvolta, non le ha condivise. Ma obbedisce. Sempre, rispettando la gerarchia ecclesiatica, come gli è stato insegnato fin dagli anni del seminario. Un libro che è l’uomo e il suo stile, semplice, diretto, immediato, senza fronzoli od orpelli, pragmatico, che va alla sostanza delle cose. Un libro che racconta la sua storia di semplice prete, i fatti accaduti che a Gallipoli tutti conoscono, con i loro risvolti, i loro piccoli segreti, le loro conseguenze talora impreviste, il loro divenire, il loro farsi tempo e materia della storia di questi ultimi cinquant’anni di Gallipoli ( “la storia siamo noi”), citando personaggi favolosi che hanno attraversato la sua e nostra memoria come lampi che illuminano e squarciano il cielo, o flashes irrelati al magnesio, a partire dal suo insegnante Agostino Cataldi, insigne storico, i vescovi Margiotta e Quaremba, i sacerdoti don Sebastiano Verona, Monsignor Alberto Tricarico, don Francesco Buccarella, Mons. Corvaglia, Papa Nanu, al secolo don Sebastiano Natali, l’onorevole Foscarini, Franco Zacà, Cicci Primordio, Simone Giungato, e tanti altri,

Un libro tutto permeato del suo spirito, del suo modo di porsi alla gente, di raffrontarsi alle situazioni, agli eventi della sua epoca, quel suo essere semplice schivo, bonario, disponibile, che all’occorrenza però sa essere ostinato, determinato, incisivo, passionale, uno che sa lottare, strenuamente, soffrire e piangere per raggiungere gli scopi che si è prefisso. Libro-scrigno di memorie preziose, dunque. Memorie che in parte sono state da me vissute, condivise, sofferte, gioite insieme a lui, all’epoca del quartiere degli “indiani”, della zona 167, di cui facevo parte anch’io fino a poco tempo fa.

Ci ho vissuto per quasi un trentennio, in quel quartiere, che un tempo chiamavano “La Vasca” e lì, trentaquattro anni fa — quando non c’era praticamente nulla, neppure l’illuminazione — lo inviò il suo vescovo, Pasquale Quaremba, dicendogli: “vai lì da missionario, ma non spaventarti per le difficoltà che incontrerai, Non c’è ancora il tempio, ma ci sono le anime, anime che con noi sono la chiesa …non posso lasciarle senza pastore …Tu sarai il loro pastore ….” (vds. pag. 42)

E questo prete figlio del popolo, che si sentiva vocato fin da fanciullo, – Dio lo chiamava, ed era in ogni voce, quella del mare, quella del vento, quella delle foglie dei lecci o dei limoneti, ma anche la voce della schiera dei diseredati, affamati, bisognosi, di una Gallipoli infinitamente povera, dove si riusciva a stento a sopravvivere ai lunghi dolorosi inverni e al libeccio sanguinario. Dio lo chiamava, ma la realtà, la dura realtà rappresentata dalle sue carenze nello studio, dalle scarse risorse economiche della famiglia, dalle istituzioni ecclesiastiche che allora avevano larga facoltà di scegliere fra i tanti che desideravano entrare nei Seminari, lo respingevano.

Gli sembrava che tutto lo respingesse, anche una poliomielite al piede destro che lo costringerà a zoppicare per il resto della sua vita, e la falsa pietà della gente. “Ma quando Dio chiama – scrive don Armando a pag.8 – prepara la strada anche se ci sono enormi ostacoli”. E quella strada non passava per Gallipoli, ma per un piccolo centro ligure, Berteggi, nei pressi di Savona, dove viveva una zia del piccolo Armando. E così questo ragazzo povero, senza apparenti risorse, se non una strenua e illimitata volontà, anche grazie alla benevolenza dei chierici liguri, di cui conserverà eterna gratitudine, riuscì nell’impresa di essere ordinato sacerdote nella sua città, nella chiesa delle Carmelitane Scalze, quasi sessanta anni fa.

Tante volte Armando mi ha parlato con nostalgia di Savona, della sua “formazione” ligure, di cui conserva perenne ricordo, della sua prima tonsura – “O Gesù che incoroni la mia testa di un pegno radioso d’amore, incorona la mia vita delle più elette virtù, perché un giorno tutta sia consacrata a te”.
Lo vediamo nelle foto, questo pretino timido, introverso, mite, che sembra stare quasi sempre in disparte, un po’ pensieroso, spaesato, preoccupato forse di dover essere sempre all’altezza di quel privilegio meraviglioso che gli era stato dato, essere sacerdote, della grande responsabilità che gli era stata data, essere pastore di anime, e pregava intensamente per sentirsi degno del proprio ufficio e dell’abito che indossava. Ma poi lo vediamo farsi, man mano, sempre più solido, forte, sicuro di sé e dei suoi mezzi, vediamo rafforzarsi il suo grande smisurato orgoglio di essere prete, pur rimanendo profondamente umile, modesto, appartato.

Armando, lo abbiamo detto, la tonaca la portava e la porta tutto il giorno, come una divisa da carabiniere, con la differenza che non smette mai d’essere in servizio, 24 ore su 24, tutti i giorni, i mesi, gli anni, una vita . E certamente non perché gli dia dei privilegi, – quelli ormai sono passati da un pezzo per i preti, se mai ci sono gli insulti, – ma perché egli è profondamente prete, e quella è per lui una seconda pelle, una pelle del corpo e dell’anima . Egli è prete fino in fondo, fino alle midolla, lo è stato, lo è da sessanta anni, un’intera esistenza, un privilegio, una gioia, ma anche una grande responsabilità.

Ricordo il nostro primo incontro, nella casa di via Pascoli, dove allora abitavamo, mia moglie ed io . D’intorno c’era ancora il profumo della calce viva,l’odore dei ginepri della villa del dottor Errico, e rimasugli di conci di tufo sparsi qua e là. Era un quartiere senza nome, ancora, e senza parrocchia. Un quartiere senz’anima, proprio perché non aveva una chiesa. Ma poi venne lui, un prete umile e fiero del suo sacerdozio, un figlio del popolo con la stola e un antico sogno da plasmare. E fu subito ecclesia, ma una chiesa a cielo aperto, con tante anime affamate e assetate di Spirito Divino. E subito la notte non fu tanto buia per molti credenti, e il giorno prese la forma della mano di Dio.

Tu, Armando, eri il nostro pastore, e celebravi la Messa negli androni dei condomini, nei garage, nei sottoscala, in strada, dove la tua 850 Fiat faceva da altare e confessionale . Quello fu un tempo felice, caro don Armando, perché l’uomo accettava l’amore e la battaglia con la stessa letizia. La canaglia arrivista non s’era arrogata ancora il nome di “popolo” e non c’erano Centri di Interesse, né contributi regionali da elargire per quartieri poveri e gente disagiata. Al massimo si faceva qualche libera sottoscrizione per far sopravvivere famiglie indigenti. In quell’aurora vilipesa che sorgeva ogni giorno noi tutti celebravamo cantando e operando la nascita di un quartiere, la nascita di una chiesa, la nascita di una nuova comunità, quella di San Gerardo Maiella. Tu, Armando, sacerdote per sempre, come Melchisedec, eri allora il parroco di una chiesa virtuale, c’era solo una grande buca, un mucchietto di conci di tufo, e una gettata di cemento.

Ti rifugiavi nella piccola cappella di Sant’Isidoro, tra l’odore di muffa, di colla e cartapesta, ti davi da fare con la scuola materna sita in Corso Italia, t’ingegnavi con le radio locali, ed era tutto un fervore, un fermento, un senso di attesa e di speranza che oggi non esiste più. Ricordo l’esultanza e il calore di quei pomeriggi invernali, con fiumi di ragazzini che mi facevano ressa, mi toccavano con le loro manine, si sedevano sulle mie ginocchia, volevano attenzione, ascolto, avevano fame di carezze, amore, come tutti noi, del resto. La vita senza amore non vale nulla. E questo tu l’hai sempre saputo, l’hai sempre detto, l’hai sempre insegnato.

E poi lo ricordo, don Armando, da vero amico, – forse lui ne ha perduto traccia e memoria – quando rimasto solo per diverso tempo, a causa di un’operazione al cuore di mia moglie, m’offrì ospitalità presso il seminario. Ogni giorno mi recavo lì a consumare i pasti, grazie a lui, che era l’economo, e a don Primaldo, che ne era il direttore, e di cui conservo un ricordo straordinario, dolce e ricco di empatia. Ascoltavamo insieme la musica di quell’epoca, lui prediligeva il Bee Gees, io un po’ meno.
Poi ci sono tanti altri momenti magici trascorsi insieme a don Armando, che sarebbe troppo lungo elencare, il periodo delle recite, Il caso Gesù, al castello angioino, ma anche la Santina di Gallipoli, che è nata nella mia mente solo grazia a lui, all’epoca in cui era parroco a San Francesco d’Assisi. Fu lui a raccontarmi la storia di Lucia, mostrandomi le reliquie e tutte le lettere che aveva scritto per il suo confessore . Mi fece vedere anche quella mole impressionante di attestazioni per grazie ricevute. Ed io mi innamorai perdutamente, – e ancora lo sono, – di quella creatura celeste, come m’ero innamorato molti anni prima della sua, della nostra città, Gallipoli.

Non c’ero al tempo delle tue lacrime, quando dovesti lasciare la tua parrocchia, che avevi visto nascere, mattone su mattone, pietra su pietra, calce su calce, croce su croce, speranza su speranza. Ero stato trasferito a Roma, dove sono rimasto per circa quattro anni. Venivo solo l’estate, ma non partecipavo più alla vita sociale e pubblica. Ma naturalmente sapevo del tuo pianto disperato e caldo nelle braccia del tuo vescovo e del fazzoletto che t’aveva donato per asciugarti le lacrime, quel fazzoletto che tu conservi ancora gelosamente tra i tuoi ricordi più significativi della tua esistenza, sapevo del tuo “obbedisco” doloroso, e pur necessario per rimanere prete, soldato di Cristo e della Chiesa.

Ecco, quel gesto, quel conservare il fazzoletto del tuo vescovo intriso delle tue lacrime, quel vescovo che è pietoso e “carnefice” ad un tempo, poiché è lui che ti depriva della gioia di conservare quella parrocchia pazientemente attesa, vagheggiata, sognata per oltre dodici anni, è lui che dà ad un altro prete quella “tua” creatura appena nata e sarà l’altro a coglierne tutti i frutti -, quel fazzoletto-teca-custodia delle tue lacrime, della tua amarezza e infelicità, quel gesto di filiale accettazione del tuo destino, diviene ora – a distanza di tanti anni – il simbolo estremo, l’emblema, il vessillo, la bandiera del tuo essere prete, oserei dire della tua grandezza di uomo e sacerdote, sacerdote per sempre, al modo di Mechilsedec, fino alle estreme conseguenze, fino all’abbraccio di Dio.


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