I.
“Dinghiliana dinghiliana
Tzia Maria nch’est ruta in funtana
E su fizu nch’est rutu in su ludu
muzere bella e maridu corrudu”
La signora Luigia ondeggiava sotto l’alto soffitto della lolla campidanese al ritmo di un dillu che dolcemente cantava mentre il povero marito, in punta di piedi su una sedia impagliata, cercava invano di afferrarla.
“Vieni giù!” urlò Palmiro Seddas.
La moglie proseguì nel canto e nella sua danza aerea indifferente alle suppliche dell’uomo. Vicino a lui, la vecchia madre, una vedova vestita di nero, scarpe da tennis, monosopracciglio, accenno di baffi, espressione severa. Tutt’intorno, delle galline, delle oche grasse, dei conigli, un gatto, un asino grigio che, indolente, da anni girava intorno alla sua mola e il cane Putzu, un meticcio pidocchioso dal pelo lungo e sporco.
“Vieni giù!”, ripeté l’uomo, ma la donna che volteggiava nell’aria era troppo immersa nel dillu per sentirlo.
“Dinghili dinghili Dinghili dou
Ei su babbu si mandigad’un’ou
Ei su fizu atterettantu
Cando ha’ gana intonad’unu cantu
Unu cantu bellu e semper nou
Dinghili dinghili Dinghili dou”
La suocera, gli occhi infuocati dall’ira, ordinò al figlio: “Palmiro, prendi la scopa! Glielo faccio vedere io Dinghili dou!”
A queste parole la signora Luigia scoppiò in una risata isterica, perse il tempo, sbatté contro la grossa trave di legno e cadde sul pavimento di pietre a mezzo metro dalla vecchia signora. Fu immediatamente legata, impacchettata, imbavagliata, portata in camera e assicurata alle sbarre di ferro del proprio letto.
“E’ così che ci ringrazi, porca che non sei altra?” le urlò in faccia la suocera. “Se non fosse stato per mio figlio oggi saresti sposata con un cartoneri e cercavi cartone d’imballaggio in mezzo alla mondezza. Sai che ti dico? Tu hai il peccato in corpo, il diavolo in persona, sì, il diavolo, e c’è una sola persona in Sardegna che possa fartelo uscire: don Barras…”
“No!”, gridò il figlio. “Don Barras no! Quell’uomo non metterà mai piede in casa mia!”
“O vai a cercare don Barras o ti tieni tua moglie così com’è. Ti piace vederla volare per le stanze? Vuoi che la gente ti prenda in giro? E’ questo che vuoi? Ma l’hai vista tua moglie?”
“Ma…”, protestò Palmiro Seddas, “lo sai che cosa fa don Barras alle donne? Lui..”
“Sì, che lo so”, l’interruppe la madre. “E allora? Che cosa può fare a una donna sposata?”
Palmiro Seddas, che non si voleva arrendere così facilmente all’evidenza di chiamare don Barras, si aggrappava alla speranza che la moglie fosse solo vittima di malocchio. Rivolgendosi alle persone giuste, anche qui in paese,lei potrebbe guarire…
“Chiamiamo la signora Faedda! Lei sa come si fa. Conosce tutte le mexinas de s’ogu pigau. Ti ricordi quando hanno rubato le pecore di Nanneddu Pitzolu? E’ stata lei a fare il rasu de Sant’Antoni che ha permesso di ritrovarle. Neanche Pitzolu ci credeva ma quando ha ritrovato le sue pecore a s’Acqua Cotta ha dovuto crederci per forza. Pare che la signora Faedda sapesse anche chi le aveva rubate.
“Non farmi ridere”, sbottò la madre. “La signora Faedda al massimo con le sue preghiere ti fa sparire i porri della mano, se lo vuoi sapere. La conosco io, quella. A tua moglie non serve una così. Non se ne fa niente del rasu. Mica è una pecora. Lei ha bisogno di un esorcista e don Barras è un esorcista vero.”
La discussione sull’opportunità di introdurre in casa propria un prete depravato si protrasse per tutto il pomeriggio ma alla fine il figlio cedette alle incalzanti argomentazioni della madre.
“Va bene, disse sottovoce, domani lo vado a cercare…”
Cenarono mestamente con gli avanzi del pranzo, a loro volta avanzi del giorno prima: del pane duro, un po’ di pecorino stagionato e un brodino di carne che portarono pure alla signora Luigia la quale, tolto il bavaglio, doveva essere imboccata col cucchiaio. Di questo preferiva occuparsene lui mentre la madre dava da mangiare agli animali e ripuliva un po’ la porcilaia, la stalla e il cortile.
Marito e moglie erano soli in camera. Gli occhi di lui tradivano una profonda sofferenza, quelli di lei solo voglia di canto e di ballo senza coscienza di sé e della vita intorno.
“Chi è don Barras?” gli chiese. Il tono della domanda era quello di una donna presente a se stessa tanto che l’omone fu sorpreso da quelle parole improvvisamente corrispondenti al suo desiderio.
“Nessuno… Non è nessuno..” rispose, turbato da quel lampo di lucidità.
Uscì dimenticando di rimetterle il bavaglio.
“Dinghiliana Dinghilianedda
Su babbu in cappotto ei sa mama in bunnedda
Ei sa pisedda in camisa arrandada
Cappellu in conca e bene apprendada”
II.
All’alba, il contadino attaccò il cavallo a sa karretta e lasciò la sua abitazione alla volta della Giara di Gentruri.
Strada facendo i suoi pensieri erano costantemente rivolti all’infelice donna che aveva sposato cinque anni prima mentre la natura indispettita invano gli mostrava le sue bellezze. Per lui erano solo dei campi più o meno arabili, fecondi, a seconda della loro posizione o della qualità della terra. Quello che ora si estendeva a destra era terra luàttsa, apparentemente buona ma traditrice…
Davanti a lui, il sole estivo cominciava a spuntare sulla linea verde blu dell’altopiano ai cui piedi ancora sonnecchiava il paesetto di Gentruri. Appena varcato il cartello di benvenuto, trovò sulla sinistra il bar del vecchio Tendas indicatogli dalla madre. Fermò la carretta davanti all’ingresso. Tre metri a destra, in una leggera rientranza del muro, a più di un metro di altezza, sfidando le leggi della fisica, qualche animale, un uomo di sicuro no, più probabilmente un cane, non si sa come, vi aveva depositato i propri escrementi. Entrò.
Il bar di Ananìa Tendas era uno di quei locali eternamente votati a consolare le sconfitte elettorali dei suoi clienti, o a festeggiarne le vittorie, essendo, come quasi tutti i bar dei paesini sardi, politicamente schierato. Quando non avevano il privilegio di diventare sezione di partito, e in mancanza di bandiere e di simboli politici da mettere in bella mostra, manifestavano le loro tendenze nei bagni, perlopiù alla turca, dove erano appese a un chiodo, per farne l’uso più dissacrante possibile, delle strisce del giornale degli odiati avversari.
Ananìa Tendas, vedendo entrare l’omone grasso, chiese con tono che avrebbe voluto professionale: “Desidera?”
“Un’informazione”, rispose Seddas.
“Cosa vuole sapere?”, chiese il barista.
“Sto cercando un certo don Barras…”
“Don… E’ meglio non nominarlo quello…”
“E perché?”, si stupì Seddas.
“Il perché lo sanno tutti in paese ed è meglio evitare l’argomento, qui.”
“Ascolti, io sono il figlio di Defenza Piras. Mi ha detto di rivolgermi a lei che mi avrebbe aiutato…”, spiegò Seddas.
“Il figlio di Defenza? E come sta? Bene?”
“Per l’età che ha sta bene. Un po’ di artrosi ma sta bene…”
“E chi non ce l’ha l’artrosi! Allora tu sei Adelfio?”
“No, sono Palmiro. Adelfio è in Gallura.”
“Ascolta, Palmiro, il tuo don Barras lo trovi lungo il sentiero in una pinnetta a circa due chilometri dall’inizio della Giara. Non puoi sbagliare. Se è per quello che penso ti dico solo una cosa: per te sarà dura, molto dura… Ti devi fare coraggio… Tu sai cosa fa don Barras? Lo sai?”
Palmiro Seddas si rattristò. Bevve il suo caffè, salutò con un cenno del capo, uscì dal bar, diede uno sguardo fugace agli escrementi nella rientranza del muro e si avviò verso il suo destino. Alle sue spalle la risata di Tendas.
Madre natura era parecchio distratta quando creò la Giara. Era forse sua intenzione farne la bocca di un immenso vulcano nel quale gettare ladri e assassini o un deserto rovente dove solo i serpenti, gli scorpioni, i demoni e le anime dei dannati potessero vagare i giorni d’inferno, come le era riuscito così bene in altre parti della Sardegna. Ne venne fuori un paradiso in terra, brulicante di una grande varietà di animali, tra i quali il cinghiale, la lepre, la volpe, vari uccelli di palude e il piccolissimo cavallino della Giara che tutt’oggi vive tra i suoi simili allo stato brado. L’altopiano è ricoperto di corbezzoli, mirti, lecci e sughere sotto le quali è bello ripararsi quando i raggi del sole sono spietati e l’aria diventa irrespirabile. Qua e là, alcune domus de janas e qualche rudere nuragico testimoniano che anticamente l’uomo vi ha abitato. A quel periodo risalgono pure le pinnettas, casette coniche ricoperte di rami in guisa di tetto, costruite da pastori o contadini e dove in tempi più recenti hanno occasionalmente trovato rifugio banditi armati di moschetto o qualche strano eremita, come ora don Barras.
Palmiro Seddas non era molto distante dal luogo indicatogli da barista di Gentruri. Sapendo dell’esistenza dei cavallini, si guardava intorno nella speranza di scorgerne almeno uno ma niente si mosse nella macchia. Arrivato alla pinnetta di don Barras, scese dalla carretta, avanzò verso l’ingresso e si fermò aspettando che l’uomo ne uscisse.
“Lei chi è?”, chiese una voce grave dietro di lui. Seddas si voltò. Dietro un muretto a secco, l’esorcista lo fissava dritto negli occhi. Si reggeva su un bastone che poteva improvvisamente tramutarsi in arma. Era un uomo vecchio dietro una lunga barba bianca, di statura media, la maglia e i pantaloni sporchi e laceri dei mendicanti. “Che cosa ci fa qui? Che cosa vuole?” L’omone, che non era abituato a questo tipo di accoglienza, fu sorpreso dal tono ostile del prete.
“Lei è don Barras?”, riuscì a chiedere.
“Perché cerca don Barras? Qui non c’è nessun don Barras!”
“Mi hanno detto che l’avrei trovato qui…”
“Se ne torni da dove è venuto. Don Barras qui non c’è. Se n’è andato.
Il signor Seddas non rispose. Rassegnato, risalì sulla carretta, fece inversione intorno a una sughera e si fermò davanti all’eremita.
“Come faccio con mia moglie adesso? Don Barras era la mia unica speranza…”
“Che cos’ ha sua moglie?”, chiese l’esorcista.
“Il demonio… E’ posseduta dal demonio…”
“Vengo con lei”, disse l’esorcista sedendosi vicino all’omone.
Puzzava come non era possibile puzzare, come non puzzano neanche le carogne su cui amano rotolarsi i cani.
Destino volle che, proprio sul sentiero che aveva percorso poco prima, si fosse fermata una coppia di cavallini. Quello di dietro era visibilmente un maschio eccitato e le sue intenzioni erano chiare. Tanto chiare che l’esorcista rideva, forte rideva allarmando una famiglia di gallinelle d’acqua che volò via in un rumoroso battito d’ali.
III.
Le vie di Gentruri sono deserte sotto i colpi del solleone. Cedono all’animazione soltanto la sera quando gli anziani si siedono davanti all’uscio e i più giovani si spingono fino a “prattsa ‘e cresia” all’ombra del campanile.
Era mezzogiorno quando la carretta cigolante di Palmiro Seddas intraprese l’attraversamento di un paese immobile, silenzioso e vuoto. Ciò nonostante, l’omone sentiva su di loro mille occhi che non si perdevano un istante del loro passaggio, quasi fossero statue di santi i giorni di siccità o dei condannati destinati alla forca. Don Barras non manifestava alcun disagio. Aveva lo sguardo fisso, fiero, e il sorriso della sfida. Seddas non osava guardare oltre la criniera del cavallo e quegli occhi doveva sentirseli addosso ben oltre l’ultima casa del paese.
“Mi spieghi che cos’ha di preciso sua moglie.”
“Vola…”, rispose Seddas imbarazzato.
“Come sarebbe a dire? Non ho mai sentito niente del genere… ma se è vero quanto afferma un semplice esorcismo non potrà bastare. Ci vorrà più tempo, dei giorni, forse delle settimane, se non dei mesi. Il demone che ha preso possesso del corpo di sua moglie è potente e deve essere combattuto con tutte le forze di cui sono capace. E’ possibile che io perda la vita durante l’esorcismo. Un dubbio, un piccolo cedimento e sono perduto. Se questo dovesse accadere dovrete cercare un altro esorcista, uno che sia più giovane e più forte di me. A Bitti c’è un certo Talanas. Chiedete di lui. E’ una vera forza della natura… ma potete stare tranquilli, ci sono io e sono forte abbastanza per sconfiggere qualsiasi demone minacci la vostra felicità…”
Seddas non seppe rispondere altro che: “Grazie, don Barras…”
“Non mi deve ringraziare. Io sono fatto così: quando la gente ha bisogno di me una mano la do volentieri.” Poi, vedendo un cespuglio di cisto l’esorcista ordinò: “Si fermi un attimo!” Scese dal veicolo, corse a nascondersi dietro il cespuglio, orinò.
La sua ombra era quella di un treppiede.
Ora che si avvicinavano alla sua azienda, per fortuna un po’ in disparte rispetto all’abitato, a sua volta piccola frazione del paesino di Gonnosmassargia nell’entroterra marmillese, si poneva per Palmiro Seddas il problema dell’umiliazione di essere visto in compagnia di quell’essere ignobile. L’ingresso dal cortile in terra battuta era l’unica soluzione possibile se voleva evitare gli sguardi indiscreti dei suoi compaesani sicuramente appostati davanti a quello principale. La carretta abbandonò quindi la strada bianca per una Kaminera provvisoria tra i campi di grano. Varcato finalmente il portone di ferro battuto i due furono accolti dalla madre di Seddas e da un cane festoso che, sbucato come un fulmine dalla stalla, si precipitò sul padrone.
“A cuccia Putzu!” disse quest’ultimo che tuttavia non sembrava dispiaciuto di essere accolto in quel modo dal suo amico a quattro zampe.
Ma Putzu non ne voleva sapere di andare a cuccia. Dopo avere leccato le sue mani e essersi ben bene strofinato contro le sue gambe, passò ad annusare l’esorcista appena sceso dalla carretta. Agitava freneticamente la coda e cominciò a girare intorno all’uomo come per trovare un varco.
“A cuccia!” urlò di nuovo Palmiro Seddas. Putzu non lo ascoltava. L’unica cosa al mondo che desiderava in quel momento era di ficcare il proprio muso nelle parti più intime e puzzolenti dell’esorcista. Cosa che fece poco prima di ricevere nelle proprie un forte calcio dalla vecchia signora.
“E legalo questo cane!” ordinò al figlio. Palmiro accorse con un guinzaglio di cuoio normalmente destinato a Puxi il pastore fonnese che faceva la guardia alle sue pecore e legò il cane a un lungo chiodo ricurvo piantato nel basso muro di pietre che conteneva il letamaio. Putzu cominciò allora a tirare sul guinzaglio e a guaire di disperazione.
“Dov’è la signora?” chiese don Barras commosso dalla pena del povero animale.
“ Stamane l’avevamo legata al suo letto ma è riuscita a liberarsi e ora passa da una stanza all’altra come un’anima dolente. Poco fa era nella lolla: se ci sbrighiamo forse la troviamo ancora lì”, disse la vecchia signora.
“Andiamo, allora!” disse don Barras dirigendosi verso l’abitazione preceduto dalla vecchia e seguito dall’omone. Passando davanti al letamaio accarezzò Putzu, il quale si calmò e smise di piangere. Proprio mentre Palmiro Seddas stava varcando la soglia della lolla don Barras si voltò tendendo la mano per fermarlo. “Lei è meglio che rimanga qui!”
“Ma…”
“Rimanga qui!” ripeté l’esorcista chiudendo la porta.
Palmiro Seddas si sedette per terra vicino a Putzu e come lui tese l’orecchio.
IV.
Seddas stava in ascolto di ogni rumore venisse da dentro la lolla. Gli pervenivano così forti che gli sembrava di essere pure lui dall’altro lato della porta. Il cigolio della mola che da un’eternità girava su se stessa, lo starnazzare di oche e polli scacciati con un calcio, lo spostamento rumoroso di sedie, la solita canzone della donna che amava.
“Vieni giù!” udì fortemente. “Giuro che se non vieni giù prendo la scopa e ti faccio vedere io!” Erano le solite minacce che la madre rivolgeva alla nuora quando era colma di rabbia impotente davanti all’ondeggiare spensierato della giovane signora. E poi la risata, il tonfo, lo sfogo di una vecchia che odiava profondamente la donna che le aveva rubato il figlio.
“Lo sai chi è quello? Non lo sai? E ora te lo fa vedere lui chi è.” Poi, rivolto al vecchio esorcista: “Portiamola in camera da letto!”
I rumori si fecero più tenui come indeboliti dalla distanza accresciuta e da una seconda porta chiusa ma erano abbastanza chiari da fare capire quello che stava succedendo.
“Bessinci! Appu nau de nci bessiri! Allora non vuoi uscire? Non vuoi uscire?” gridava l’esorcista con voce potente. “Bessinci o ti fatzu biri deu!”
In risposta, una risata folle, una risata di sfida.
“Vuoi davvero che ti faccia vedere? E’ questo che vuoi?”
“E le faccia vedere!” Questa era la voce della madre. Quanto la odiava la madre. Mai una volta che avesse dimostrato di avere un cuore, un sentimento. Era fatta, la madre, per torcere il collo ai polli e uccidere i conigli, non per provare dei sentimenti.
“E insaras ti fatzu biri deu!” urlò l’esorcista. “Ti faccio vedere io!”
Ci fu un lungo silenzio, che Palmiro Seddas non voleva interpretare, ma che interpretava benissimo…
“Oh, Deuuuu!…” gridò la madre. “Oh, Deuuuu! Allora non sono storie! E’ tutto vero! Ma come è possibile una cosa così? Neanche gli asini ce l’hanno così grande! Già lo credo che con quell’enorme aspersorio i diavoli se ne scappano via! Ma sono tutti così nella Giara? Non sarà che a forza di vivere tra i cavalli a poco a poco diventate come loro?”
“MA MI OLLISI LASSAI SU CULU IN PAXI?” si sentì urlare. Non era la voce della giovane donna o della vecchia e non era neanche quella dell’esorcista. Nella camera da letto c’era un’altra persona. Questa volta Palmiro si decise ad entrare. Spinse la porta della lolla e proprio mentre stava entrando incrociò sulla soglia un ometto alto sì e no un metro e quaranta col costume tipico di Orgosolo. Aveva il naso rosso degli ubriaconi e due piccole corna sulla fronte. Suonava un dillu allegro con le launeddas e ballava procedendo ritmicamente verso il letamaio. Incantato dalla musica Palmiro Seddas lo lasciò passare e altrettanto fece Putzu che lo avrebbe seguito se non fosse stato legato. Forse avrebbe visto sparire per sempre quell’essere straordinario insieme alle sue festose note.
Poi comparve don Barras, accompagnato dalla vecchia.
“E’ stato più facile di quanto pensassi”, disse soddisfatto.
“Ora corra da sua moglie. E’ libera. Il demone che possedeva il suo corpo è uscito da lei.”
Palmiro Seddas che non aveva il coraggio di sostenere lo sguardo del vecchio fissava il pavimento di pietra come se avesse perso qualcosa.
“Non le ho fatto niente, stia tranquillo. Gliel’ho solo fatto vedere… ma era l’unico modo per sconfiggere quell’entità malvagia” spiegò don Barras.
Palmiro, il cuore battente, corse in camera. La moglie, Luigia, ancora troppo debole per potersi alzare dal letto aveva già ritrovato il colorito rosa del suo viso. Sorrideva come non le accadeva da troppo tempo ma non appena il marito la strinse tra le sue braccia esplose in calde e liberatorie lacrime d’amore. In un attimo la camera fu invasa da oche, galline, galli, conigli, un gatto, un maiale, un cavallo, da tutti quegli animali che vivevano nel cortile dei Seddas come una famiglia, stringendosi intorno ai loro padroni che celebravano nei singhiozzi le loro seconde nozze, mentre nella lolla l’asino indifferente al destino degli umani continuava a girare intorno alla sua mola.
Un venticello fresco spazzava il cortile dando un po’ di sollievo al vecchio stanco e affamato, le ombre cominciavano ad allungarsi sulla terra battuta, Putzu, che nel frattempo era riuscito a sguinzagliarsi, riprese a gironzolare intorno a don Barras, la madre di Palmiro a prenderlo a calci.
La vecchia guardò l’esorcista con occhi nuovi… Dopo tanto tempo si affacciò nel suo sguardo l’espressione di un qualcosa che poteva essere un sentimento. Ne era sicura: era l’uomo che da anni aspettava. Troppo a lungo era vissuta da vedova. Gli prese la mano. Lui non oppose resistenza, come se dal primo momento sapesse che sarebbe finita così.
“Quel suo coso, non è che me lo fa vedere ancora una volta?” chiese la vecchia signora.
“Quale coso?” sorrise l’esorcista.
“Quel coso”, precisò la donna.
Fine
Termini e espressioni usati nel racconto:
Lolla: grande loggiato dove si affacciano le varie stanze della casa sarda
Dillu: tipo di ballo sardo
Pinnetta: costruzione in pietre a secco a pianta tonda con copertura di canne o di rami
Cartoneri: persona che raccoglieva il cartone per strada e lo rivendeva alle cartiere
Mexinas de s’ogu pigau: preghiere contro il malocchio
Rasu de sant’Antoni: serie di preghiere per ritrovare le cose perdute le quali appaiono in sogno nel posto dove si trovano
Pratts’e cresia: letteralmente piazza della chiesa
“Bessinci o ti fatzu biri deu!”: esci da lì o ti faccio vedere io!
“E insaras ti fatzu biri deu!”: E allora ti faccio vedere io!
“Ma mi ollisi lassai su culu in paxi?”: ma mi vuoi lasciare il culo in pace?
Lino Soddu