Memorie dell’Oratorio
Malattia – Guarigione – Dimora progettata per Valdocco
I molti impegni che io aveva nelle carceri, nell’ospedale Cottolengo, nel Rifugio, nell’Oratorio e nelle scuole facevano sì, che dovessi occuparmi di notte per compilare i libretti che mi erano assolutamente necessaria. Per la qual cosa la mia sanità, già per se stessa assai cagionevole, deteriorò al punto che i medici mi consigliarono a desistere da ogni occupazione. Il teologo Borel, che assai mi amava, per mio bene mi mandò a passare qualche tempo presso al curato di Sassi. Riposava lungo la settimana; la domenica mi recava a lavorare all’Oratorio. Ma ciò non bastava. I giovanetti a turbe venivano a visitarmi; a costoro si aggiunsero quelli del paese. Sicché era disturbato più che a Torino, mentre io stesso cagionava immenso disturbo ai miei piccoli amici.
Non solamente quelli che frequentavano l’Oratorio correvano, si può dire ogni giorno, a Sassi, ma gli stessi allievi dei Fratelli delle Scuole Cristiane. Tra i molti avvenne questo episodio. Si dettarono gli esercizi spirituali agli alunni delle scuole di S. Barbara amministrate eziandio dai medesimi religiosi. Essendo soliti in gran numero confessarsi da me, sul terminare degli esercizi vennero in corpo a cercarmi all’Oratorio; ma non avendomi trovato colà partirono alla volta di Sassi, distante quattro chilometri da Torino. Era tempo piovoso; eglino inesperti della via andavano vagando ne’ prati, ne’ campi e nelle vigne in cerca di D. Bosco. Ci giunsero finalmente in numero di circa quattrocento, tutti sfiniti dal cammino e dalla farne, molli di sudore, coperti di zacchere anzi di fango, e chiedenti di potersi confessare. «Noi, dicevano, abbiamo fatto gli esercizi, vogliamo farci buoni, vogliamo tutti fare la nostra confessione generale, e col permesso dei nostri maestri siamo qua venuti». Fu detto loro che ritornassero tosto al collegio per togliere dalla ansietà i loro maestri ed i loro parenti, ma essi rispondevano con asseveranza che volevano confessarsi.
Tra il maestro comunale, curato, vicecurato e me si confessò quanto si poté; ma ci volevano almeno una quindicina di confessori.
Ma come ristorare o meglio acquetare l’appetito a quella moltitudine? Quel buon curato, è l’attuale T. Abbondioli, diede a que’ viaggiatori ogni suo commestibile, pane, polenta, fagiuoli, riso, patate, cacio, frutta, ogni cosa fu acconciata e loro somministrata.
Quale non fu poi lo sconcerto, quando i predicatori, i maestri, alcuni personaggi invitati intervennero per la chiusa degli esercizi, per la messa, comunione generale e non trovarono un allievo in collegio? Fu un vero disordine; e si diedero efficaci provvedimenti a che non venissero più rinnovati.
Venuto a casa, fui preso da sfinimento, portato a letto. La malattia si manifestò con una bronchite, cui si aggiunse tosse ed infiammazione violenta assai. In otto giorni fui giudicato all’estremo della vita. Aveva ricevuto il SS. Viatico, l’olio santo. Mi sembrò che in quel momento fossi preparato a morire; mi rincresceva di abbandonare i miei giovanetti, ira era contento che terminava i miei giorni dopo aver dato una forma stabile all’Oratorio.
Sparsa la notizia che la mia malattia era grave, si manifestò generale e vivissimo rincrescimento da non potersi dire maggiore. Ad ogni momento schiere di giovanetti lagrimanti e bussando alla porta chiedevano del mio male. Più si davano notizie, più se ne dimandavano. lo udiva i dialoghi che si facevano col domestico e ne era commosso. In appresso ho saputo quello che aveva fatto fare l’affezione de’ miei giovani. Spontaneamente pregavano, digiunavano, ascoltavano messe, facevano comunioni. Si alternavano passando la notte in preghiera e la giornata avanti l’immagine di Maria Consolatrice. Al mattino si accendevano lumi speciali, e fino a tarda sera erano sempre in numero notabile a pregare e scongiurare l’augusta Madre di Dio a voler conservare il loro povero D. Bosco.
Parecchi fecero voto di recitare il Rosario intiero per un mese, altri per un anno, alcuni per tutta la vita. Né mancarono quelli che promisero di digiunare a pane ed acqua per mesi, anni ed anche tutta la vita. Mi consta che parecchi garzoni muratori digiunarono a pane ed acqua delle intere settimane, punto non rallentando da mattino a sera i pesanti loro lavori. Anzi, rimanendo qualche breve tratto di tempo libero andavano frettolosi a passarlo davanti al SS. Sacramento.
Dio li ascoltò. Era un sabato a sera e si credeva quella notte essere l’ultima di mia vita; così dicevano i medici, che vennero a consulto; così ne era io persuaso, scorgendomi affatto privo di forze con perdite continue di sangue. A tarda notte mi sentii tendenza a dormire. Presi sonno, mi svegliai fuori di pericolo. Il dottor Botta e il dottor Cafasso al mattino nel visitanmi dissero che andassi a ringraziare la Madonna della Consolata per la grazia ricevuta.
I miei giovani non potevano credere se non mi vedevano, e mi videro di fatto poco dopo col mio bastoncino a recarmi all’Oratorio, con quelle commozioni che ognuno può immaginare ma non descrivere. Fu cantato un Te Deian. Mille acclamazioni, entusiasmo indescrivibile.
Fra le prime cose, una fu quella di cangiare in cose possibili i voti e le promesse che non pochi avevano fatto, senza la dovuta riflessione, quando io era in pericolo della vita.
Questa malattia avveniva sul principio di luglio 1846, quando appunto doveva lasciare il Rifugio e trasferirmi altrove.
Io sono andato a fare alcuni mesi di convalescenza in famiglia, a casa, a Morialdo. Avrei più a lungo protratta la mia dimora in quel luogo nativo, ma i giovanetti cominciarono a venire a schiere a farmi visita, a segno che non era più possibile godere né riposo né tranquillità. Tutti mi consigliavano di passare34 almeno qualche anno fuori di Torino, in luoghi sconosciuti, per tentar l’acquisto della primiera sanità. D. Cafasso e l’arcivescovo erano di questo parere. Ma tal cosa tornandomi di troppo grave rincrescimento, mi fu acconsentito di venire all’Oratorio con obbligo che per due anni non avessi più preso parte né alle confessioni né alla predicazione. Ho disubbidito. Ritornando all’Oratorio, ho continuato a lavorare come prima e per 27 anni non ho più avuto bisogno né di medico, né di medicine. La qual cosa mi ha fatto credere che il lavoro non sia quello che rechi danno alla sanità corporale.
Giovanni Bosco, “Memorie dell’Oratorio di S. Francesco di Sales dal 1815 al 1855″, con saggio introduttivo e note storiche a cura di Aldo Giraudo, Roma, LAS 2011.Link correlati:- Tutti i post di TGS Whiteboard sulle “Memorie dell’Oratorio”
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