Stabile dimora all’Oratorio di Valdocco
Passati alcuni mesi in convalescenza in famiglia, sembravami di poter fare ritorno a’ miei amati figli, di cui parecchi ogni giorno venivano a vedermi o mi scrivevano eccitandomi a fare presto ritorno tra loro. Ma dove prendere alloggio, essendo stato congedato dal Rifugio? Con quali mezzi sostenere un’opera che diveniva ogni giorno più laboriosa e dispendiosa? Di che avrei potuto vivere io e le persone che meco erano indispensabili?
In quel tempo si resero vacanti due camere in casa Pinardi e quelle si pigionarono per abitazione mia e di mia madre.
«Madre, le dissi un giorno, io dovrei andare ad abitare in Valdocco, ma a motivo delle persone che occupano quella casa non posso prendere meco altra persona che voi». Ella capì la forza delle mie parole e soggiunse tosto: «Se ti pare tal cosa piacere al Signore, io sono pronta a partire in sul momento». Mia madre faceva un grande sacrifizio; perciocché in famiglia, sebbene non fosse agiata, era tuttavia padrona di tutto, amata da tutti, ed era considerata come la regina dei piccoli e degli adulti.
Abbiamo fatto precedere alcune cose maggiormente necessarie che, con quelle già esistenti al Rifugio, furono spedite alla novella abitazione. Mia madre empié un canestro di biancheria e di altri oggetti indispensabili; io presi il breviario, un messale con alcuni [libri] e quaderni più necessari. Era questa tutta la nostra fortuna. Partimmo a piedi dai Becchi alla volta di Torino. Facemmo breve fermata a Chieri e la sera del 3 novembre 1846 giungemmo in Valdocco.
Al vederci in quelle camere sprovviste di tutto, mia madre scherzando disse: «A casa aveva tanti pensieri per amministrare e comandare; qui sono assai più tranquilla perché non ho più né che maneggiare né a chi fare comandi».
Ma come vivere, che mangiare, come pagare i fitti e provvedere a molti fanciulli che ad ogni momento dimandavano pane, calzamenta, abiti o camicie, senza cui non potevano recarsi al lavoro? Avevamo fatto venire da casa un po’ di vino, di meliga, fagiuoli, grano e simili. Per fare fronte alle prime spese aveva venduto qualche pezzo di campo ed una vigna. Mia madre avevasi fatto portare il corredo sposalizio, che fino allora aveva gelosamente conservato intero. Alcune sue vesti servirono a formare pianete, colla biancheria si fecero degli amitti, dei purificatori, rocchetti, camici e delle tovaglie. Ogni cosa passo per mano di madama Margherita Gastaldi, che fin d’allora prendeva parte ai bisogni dell’Oratorio.
La stessa mia madre aveva qualche anello, una piccola collana d’oro, che tosto vendette per comperare galloni e guarniture pei sacri paramentali. Una sera mia madre, che era sempre di buon umore, mi cantava ridendo: «Guaio al mondo se ci sente. i Forestieri senza niente».
Sistemate in qualche modo le cose domestiche ho preso a pigione un’altra camera, che venne destinata a sacristia. Non potendosi aver locali per le scuole, qualche tempo dovetti farla in cucina od in mia camera, ma gli allievi, fior di monelli, o tutto guastavano o tutto mettevano sossopra. Si cominciarono alcune classi in sacristia, in coro, e nelle altre parti della chiesa; ma le voci, il canto, l’andirivieni degli uni disturbavano quanto volevano fare gli altri. Alcuni mesi dopo si poterono avere due altre camere a pigione, e quindi organizzare meglio le nostre classi serali. Come fu detto sopra nell’inverno del 1846-7 le nostre scuole ottennero ottimi risultati. In media avevano trecento allievi ogni sera. Oltre alla parte scientifica animava le nostre classi il canto fermo e la musica vocale, che tra noi furono in ogni tempo coltivati.
Giovanni Bosco, “Memorie dell’Oratorio di S. Francesco di Sales dal 1815 al 1855″, con saggio introduttivo e note storiche a cura di Aldo Giraudo, Roma, LAS 2011.
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