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Don Ciotti dal #Messico: “Ho incontrato i genitori di Gisela, sindaca uccisa dai #narcos”

Creato il 01 febbraio 2016 da Vfabris @FabrizioLorusso

Luigi Ciotti Sicilia Seis Punto Zero

Incontro Don Luigi Ciotti, fondatore di Libera (Associazioni, nomi e numeri contro le mafie), in una mattinata di fine gennaio a Città del Messico. L’appuntamento è nella sede di Cauce Ciudadano (Alveo Cittadino), associazione partner di Libera che lavora coi giovani dei quartieri marginali. E’ uno dei pochi momenti disponibili nell’agenda di Don Ciotti che ha in programma una lunga serie di incontri con organizzazioni della società civile e vittime della criminalità nel quadro dell’iniziativa “Messico per la Pace”. Questa campagna ha l’obiettivo di far conoscere in Italia la difficile situazione messicana e sostenere le realtà che in loco lottano per la sua trasformazione. [Nella foto: Luigi Ciotti e il poeta attivista messicano Javier Sicilia]

Qual è l’importanza del Messico per Libera?
Sono venuto tante volte in Messico. Proprio in questi giorni degli amici mi hanno consegnato dei libri che abbiamo co-editato insieme sul tema della droga. Come Gruppo Abele avevamo portato anche il tema delle dipendenze dalle droghe con dei contatti in Messico per fare progetti insieme, condividere esperienze e darci una mano reciprocamente. Credo che si debbano condividere le esperienze che si fanno e poi ognuno deve calarle nel proprio contesto e territori, nella propria cultura e nel percorso della gente. Questo ha permesso di conoscerci: dire droga vuol dire anche mafia. Il traffico delle sostanze stupefacenti è in mano nella sua quasi totalità alle organizzazioni criminali e specialmente a quelle criminali mafiose. Quindi, come in Italia, Libera nasce un po’ dalla storia del Gruppo Abele, che era impegnato contro la varie forme di dipendenza e non solo. Anche le forme di sfruttamento, prostituzione, la tratta, la corruzione o l’illegalità.

E’ stato più facile qui sentire il bisogno di creare una collaborazione. E così è nata, perché il problema del narcotraffico è un problema che ci tocca tutti, no? Sono stato anche in altre nazioni dell’America Latina proprio per questa ragione. Ecco che questo rapporto nasce perché ci uniscono gli stessi interessi e le stesse problematiche, pur se in regioni e contesti diverse. Il narcotraffico ha dimensioni criminali non indifferenti. Perché penso alle oltre 26mila persone scomparse, penso che la prima causa di morte nel mondo giovanile qui è l’omicidio, mentre in altri paesi sono gli incidenti stradali in quella fascia d’età. Penso alle oltre 180mila vittime accertate della guerra di mafia in questo territorio, quindi sono numeri grandi, però, con numeri molto più piccoli, abbiamo vissuto parte di questa storia anche nel nostro paese perché quanti morti ha fatto e continua a fare anche in Italia, pur con numeri completamente diversi, la violenza criminale?

Cosa possono avere in comune le esperienze dell’Italia e del Messico? Cosa può apportare Libera dall’Italia al Messico?
E’ uno scambio che ci arricchisce reciprocamente. Ogni volta che vengo qui imparo. Conosco esperienze, coraggio, creatività, fantasia. E il lavoro nelle periferie, dentro i barrios e i territori difficili. Ho toccato con mano il coraggio di reagire da parte di molti, cresciuti dentro queste organizzazioni magari sin da piccoli, che poi si fanno promotori di un percorso alternativo per uscire da questi circuiti criminali. Carlos Cruz dell’associazione Cauce Ciudadano è una di queste storie. Quindi c’è una reciprocità perché ci si arricchisce e ognuno è chiamato a dare il proprio apporto e contributo senza calarlo dall’alto. E questo avviene in tutti i territori. Qui stiamo costruendo insieme dei percorsi: ALAS, la rete di Libera in America Latina, parte dalla stima, dall’attenzione, dalla riconoscenza, dal rispetto e dalla valorizzazione per cui proviamo gratitudine per le realtà che qui sono impegnate.

E allo stesso modo abbiamo fatto in modo che l’esperienza maturata nel nostro paese potesse diventare un punto di riferimento. Credo che sia in Italia che qui abbiamo colto questo grande bisogno che c’è: io lo chiamo grido di libertà. In che senso libertà? Chi è povero non è libero, chi è schiacciato dalla violenza criminale non lo è, chi è ricattato non è libero, le ragazze sfruttate non sono libere. E’ quindi questo grido di libertà che ci unisce, pur in contesti diversi. Oltre che il più prezioso dei beni la libertà è la più esigente delle responsabilità. Abbiamo la responsabilità di impegnare un po’ della nostra libertà per aiutare chi libero non è. Abbiamo deciso di farlo mettendo insieme tante associazioni e realtà di mondi e contesti completamente diversi perché troverai movimenti cattolici e più laici, giovani e anziani, eccetera.

In che modo?
Attraverso tre strumenti molto importanti che cerchiamo di condividere. Primo, quello culturale. Perché la cultura risveglia le coscienze, il lavoro nelle scuole, con le università. Abbiamo appena fatto qui con Cauce Ciudadano un in incontro e s’è lavorato sui linguaggi che devono tenere conto della ricchezza dei contenuti e devono essere accessibili. Non dimentichiamo che l’unità di misura dei rapporti umani è la relazione e questa ha bisogno di un linguaggio che sia accessibile a tutte le persone in forme e livelli diversi. Abbiamo condiviso questa esigenza.

La seconda cosa che ci unisce è la memoria che deve trasformarsi in impegno per non diventare celebrazione, evento. Spesso c’è questo grosso rischio, ma la memoria io l’ho sempre inquadrata con un’espressione: trasformare la memoria in un’etica dell’impegno. Ecco in Italia abbiam cercato di fare questo, di non lasciar soli i familiari, di tutelarli ma anche di fare una battaglia politica affinché abbiano una serie di garanzie. Devo dire che le vittime innocenti accertate della criminalità mafiosa hanno già dei riconoscimenti nel nostro paese ma non per tutti. Ad esempio quelli che son stati uccisi prima del 1961 non sono riconosciuti e non capisco perché… Pare sia sempre l’economia che determina l’attenzione che, invece, dovrebbe rivolgersi maggiormente alla storia delle persone. Abbiamo cercato di stanarli, di essergli vicini, di sentire la responsabilità della memoria, il dovere di trasmettere una memoria, ma soprattutto di creare le condizioni per cui nessuno si dimentichi che il miglior modo di fare memoria è quello d’impegnarci veramente di più tutti. Non solo un giorno all’anno.

Abbiamo scelto il primo giorno di primavera per ricordare tutte le vittime. Il 21 di marzo ogni anno in una città. Quest’anno sarà fatto in tutta Italia alla stessa ora dello stesso giorno la lettura di questa lista interminabile di nomi: è un segnale evidentemente però guai se ci dimentichiamo che la memoria va bene ma per essere vera deve essere un impegno. Abbiamo dato una mano a molti familiari a trasformare il loro dolore, la loro sofferenza e fatica in impegno e testimonianza. A non rinchiudersi nel loro dolore, nelle loro paure e nell’ansia, ma a trovare punti di riferimento per diventare anche loro una forza. Non una categoria, come si dice “voi siete i familiari”, ma cittadini che si assumono responsabilità e tocca a noi non lasciarli soli.

Il terzo punto è stato quello che ci ha creato più problemi anche se adesso tutti capiscono l’importanza della confisca dei beni ai mafiosi. Quando è nata Libera abbiamo condiviso il sogno di Pio Latorre. Siciliano, deputato e sindacalista, aveva intuito che bisognava inserire nel codice penale i reati di stampo mafioso. Poi la legge venne fatta, ma lui non la vide perché fu ucciso prima. L’altra sua grande intuizione è stata quella per cui bisogna sottrarre ai mafiosi i patrimoni perché cos’è che più disturba i mafiosi e i grandi boss? Il loro obiettivo è il potere, il denaro, la forza e allora li disturba il fatto che tu gli togli questo potere e la loro immagine, oltre a quei patrimoni che ha realizzato spesso con la morte, il sangue e la violenza. Latorre l’aveva intuito ed è stato ammazzato quattro mesi prima di vedere approvata la legge. Quando nasce Libera pensiamo che il suo sogno deve realizzarsi. La legge che era passata non era completa, non prevedeva adeguatamente l’aspetto della confisca dei beni. E per questo abbiamo raccolto un milione di firme per stimolare i cittadini a prendere posizione, a unire le forze per chiedere al parlamento e alla politica del nostro paese una legge per la confisca dei beni dei mafiosi. Per migliorarla s’è aggiunto anche l’uso sociale di quei beni quando possibile.

E oggi sono centinaia le realtà che hanno accesso a questo attraverso bandi pubblici. Abbiamo aperto un po’ questa strada facendo le prime cooperative su terreni agricoli però con la creazione dei consorzi dei comuni. I beni confiscati restano dello Stato che li affida ai comuni. Questi secondo la legge possono destinarli ad usi per il bene comune o anche dare loro un uso sociale in favore delle cooperative o associazioni. Lo Stato non dà i soldi alle cooperative ma al consorzio dei comuni, essendo loro i gestori. Abbiamo cercato di creare cooperative di tipo agricolo sui beni confiscati col progetto Libera Terra e la scelta del biologico. Questo vuol dire dare lavoro. Era difficile fino a 20 anni fa immaginare nel nostro paese che le ricchezze delle mafie potessero trasformarsi in opportunità di lavoro, in luoghi di stimolo alla partecipazione civile e in strumenti di cambiamento.

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[Nella foto: Don Luigi Ciotti e Paolo Pagliai all’Istituto Italiano di Cultura di Città del Messico]

Dicevi, nella tua conferenza presso l’Istituto Italiano di Cultura, che corruzione e mafia sono due facce della stessa medaglia. Sarebbe applicabile una politica di questo tipo anche in Messico, malgrado suoi alti livelli di violenza e la connivenza degli apparati di stato con la criminalità?
Direi di sì. Qui, ma anche nel nostro paese, i livelli di corruzione sono eccezionali. Allora vorrei dire che l’economia mafiosa oggi è per molti versi legata all’economia legale, al sistema che governa il libero mercato. La finanza, gli scambi e la corruzione chiamano in causa l’etica privata e pubblica. Allora in questo senso la lotta alle mafie e alla corruzione non sono solo un dovere etico ma anche una priorità economica perché ci impoverisce tutti. E’ questo il forte potere in mano ai mafiosi. Il problema non sono quindi solo i poteri legali, né solo quelli mafiosi il cui scopo è il denaro, la forza e fare soldi, in sostanza. Il vero problema sono anche i poteri legali che si muovono illegalmente. Le mafie sono dei parassiti di un sistema che distrugge il lavoro, la dignità e la speranza. Per raggiungere il loro obiettivo s’avvalgono di questo o quel potere che gli permette di sopravvivere e le protegge. E sono segmenti del potere politico. Più che mai oggi sono anche i poteri economici, imprenditoriali e finanziari. Questo è chiaro, tant’è vero che testualmente la Banca d’Italia anni addietro parlò di “corrotti che siedono regolarmente nei consigli d’amministrazione di enti pubblici”. Allora dico, insomma, siccome lo denunciate seriamente, si crei rapidamente un sistema per farli venir fuori, per cacciarli. Magari dei passi si stanno facendo, ma credo che resti fondamentale il problema della corruzione che è l’incubatrice del potere mafioso. Ma c’è di più. L’altro elemento da affrontare è la mafiosità diffusa.

E’ un concetto simile a quello “messicano” di narcocultura?
Esatto. E’ il vero patrimonio delle mafie prima ancora di quello economico. I mafiosi riescono a fare questo perché c’è proprio una mentalità mafiosa che ci circonda. La vediamo nel nostro paese, anche se certe cose sono cambiate. Noi e altri abbiamo lavorato molto nelle scuole, nelle università, con la magistratura e condotto una battaglia culturale. Dei passi in avanti sono stati fatti e credo che abbiamo una tra le migliori leggi per il contrasto alle mafie. Certo poi bisogna anche tradurla in pratica. Quello che manca ad esempio in un paese come il Messico è una commissione antimafia, la politica deve attrezzarsi. E’ uno strumento politico fondamentale. Il nostro ruolo è un altro, riguarda la società civile, l’educazione, la dimensione culturale, l’impegno sociale perché abbiamo troppi cittadini a intermittenza in giro, a seconda delle emozioni e dei momenti, e abbiamo bisogno di cittadini più responsabili.

Anche qui c’è la percezione che i movimenti di protesta come quello per la Pace del 2011 e quello nato intorno ai genitori dei 43 desaparecidos de Ayotzinapa abbiano funzionato come ondate che poi rientrano e non sempre si concretizzano in cambiamenti.
E’ vero. Dico sempre che la strada per tutti è in salita. Ma tre parole per me diventano fondamentali. La continuità nel fare le cose, anche se è dura e difficile. La seconda parola è la condivisione, non è opera di navigatori solitari. Credo nell’unione di energie e pensieri. Ecco allora la nostra esperienza mi ha portato qui 5 anni fa, chiamato dalla conferenza episcopale messicana a parlare a tutti i vescovi perché l’esempio che s’era costruito un po’ in Italia interessava a questo episcopato. Si chiedevano come è stato possibile mettere insieme tanti movimenti e realtà così diverse tra di loro. E’ stata una scommessa evidentemente. Credo che in ogni nazione, pur con caratteristiche diverse e anche se per esempio qui il ceto medio è più ridotto ed è una terra di estremi, la strada del “Noi”, di unire forze ed energie con corresponsabilità diventi importante. Allora c’è la continuità, la condivisione, il noi, e la corresponsabilità. Corresponsabilità vuol dire che noi sentiamo che dobbiamo cercare di collaborare con le istituzioni quando fanno la loro parte, ma di essere anche una spina nel fianco quando non vengono affermati i diritti, l’uguaglianza e la dignità delle persone.

Nel contesto messicano, ma anche in certa misura in quello italiano, c’è da considerare che attivisti, giornalisti, difensori dei diritti umani e tutte le categorie che rappresentano comunità o gruppi sociali sono tra due fuochi: la criminalità organizzata e apparati dello stato a vari livelli che remano contro di loro. A volte questo avviene mediante legislazioni che penalizzano o criminalizzano le proteste e le domande sociali. Spesso queste vengono interpretate dai media e da un’opinione pubblica piuttosto conservatrice come “delinquenziali” e paragonate alla criminalità organizzata. Che ne pensi?
Sono molto consapevole di questo, di questi elementi, perché a forza di venire qui e ascoltare vedo che da una parte c’è questa situazione ma dall’altra anche il coraggio. E ce ne vuole veramente tanto, la dignità, il non venire meno. Ho visto gruppi di ragazzi, le associazioni l’altro giorno a Cuernavaca, e abbiamo fatto un incontro di grande valore.

Questa è una grande battaglia politica che va portata avanti, affidata però al popolo, alla nazione, per quella che è la sua parte. Mi fa piacere che ci siano anche delle collaborazioni con la magistratura italiana, alcuni sono venuti qui, ma è da anni che ci sono collaborazioni per cercare dei sistemi. Bisogna fare in modo che non diventino solo di facciata e che si concretizzino perché questa è la strada. La corruzione, che si trova a diversi livelli, ci impoverisce tutti e, devo dire che è così anche da noi: il fango, le manovre, il destabilizzare. Dobbiamo avere più coraggio tutti. Credo anche che la prima grande riforma da fare, guardando più all’Europa evidentemente, sia un’autoriforma delle nostre coscienze, di risveglio delle nostre coscienze. Certo qui c’è una parte della popolazione che culturalmente fa più fatica o ha meno strumenti, ma anche da noi in Italia ora ci sono 8 milioni di persone in povertà relativa e 4 in povertà assoluta. Siamo agli ultimi posti in Europa, nonostante i miglioramenti negli ultimi tempi, per la dispersione scolastica. Milioni di italiani sono analfabeti o hanno forme di analfabetismo di ritorno. E allora, lotta alle mafie…

Come vedi un contesto come il messicano in cui c’è sempre manovalanza criminale disponibile per via della povertà e la mancanza di opportunità?

Sì è vero, ma anche da noi adesso tutti i vuoti creati, per il grande lavoro degli arresti dei latitanti, vengono subito riempiti da nuove leve: la mancanza di lavoro, e molti che si perdono per strada nella scuola, favorisce tutto questo. Dico sempre che le mafie non sono figlie della povertà e dell’arretratezza, ma è indubbio che povertà, disuguaglianze e marginalità sono i serbatoi che favoriscono la loro espansione per cui bisogna affrontare il problema delle pratiche sociali vere, reali. Lotta alla mafia nel nostro paese vuol dire lavoro, cultura, scuola. Certo, anche il lavoro dei magistrati e delle forze dell’ordine, ma c’è anche una risposta di politiche sociali che diventa importante. Va chiarito che la mafia non è figlia della povertà, ma quelle disuguaglianze la favoriscono moltissimo. Perché poi i grandi capi o per esempio il capo di Cosa Nostra a Corleone era un medico, cioè non si tratta solo di povera gente che reagisce in un certo modo. Oggi dietro c’è la grande finanza, quella sporca in giro per il mondo, quell’economia che Papa Francesco ha chiamato “economia assassina”.

C’è dunque una responsabilità dei poteri pubblici in un tipo di politica economica e nella perdita di interi territori che in Messico è molto forte?
Ma certo, è quello che dicevo prima. Le mafie sono forti quando la politica è debole, quando la democrazia è pallida. Per esempio non è possibile che in Italia crescano l’evasione fiscale e la corruzione. Adesso tutti fanno i codici etici e io sono preoccupato perché il primo codice etico è la tua coscienza. Perché non basta scrivere e fare “un protocollo”. No, sono i tuoi comportamenti, i tuoi linguaggi, le tue scelte, le tue frequentazioni. Oggi l’etica è una parola che è sulla bocca di tutti, invece chiama in causa di più le nostre coscienze, comportamenti, linguaggi.

Qual è la posizione di Libera o tua nel dibattito, molto acceso in Messico, sulla legalizzazione delle droghe?
E’ un dibattito che va avanti da sempre.

Come la pensate? Sottrarre quei mercati alle mafie può essere una strategia utile?
Io sono perché ci si metta tutti intorno a un tavolo, spogliandosi da pregiudizi e moralismi, per chiederci, non dimenticando mai la dignità delle persone che è l’obiettivo centrale, che cosa si può fare sulla faccia di questa Terra dove già ci sono tantissime ipocrisie. Un’ipocrisia che tocco con mano è quando prendo un pacchetto di sigarette, monopolio dello Stato, con scritto “Nuoce gravemente alla salute”. Credo sia un’ipocrisia perché le vendi e ci metti sopra anche l’immagine della morte…Allora che si affronti il discorso complessivo, con vera volontà politica di affrontare questo nodo, si aprano gli armadi che sono blindati a Vienna dove tanti studiosi hanno fatto ricerche eccezionali. Lì c’è il centro dell’Onu sulle dipendenze. Molti ricercatori di tutto il mondo hanno lavorato per questo organismo per capire i meccanismi, i governi, i traffici. Sono sotto giuramento.

Molti che abbiamo incontrato, anche italiani molti bravi, ci dicono di fare qualcosa da anni perché, dicono, “quei documenti negli armadi, le molte ricerche per cui abbiamo lavorato anni e abbiamo dimostrato cosa stava dietro a tutto questo mondo e al giro delle droghe, non sono poi resi pubblici”. Perché quando toccano i governi…I governi hanno diritto di voto e quindi se il rapporto che tu mi fai, il lavoro che ti avevo commissionato, poi contiene denunce, allora molti son bloccati perché vengono fuori delle cose per cui la politica, il governo, dice che quel rapporto non dev’essere pubblicato. Studi sui traffici e le coperture, su cosa si nasconde dietro. Ecco quando dico allora, per piacere, facciamo una riflessione seria a carte scoperte su qual è la soluzione perché sono falliti tutti gli altri tipi di percorso. La lotta alla droga l’abbiamo persa tutti.

Cosa pensi della strategia di mano dura e militarizzazione dei territori partita a fine 2006 con la cosiddetta “guerra alle droghe” in Messico?
Mi pare che la droga continui a essere alla grande in giro per tutta questa Terra. Io non ho le competenze, la professionalità, opero nel sociale, ma vedo la disperazione della gente. Vedo che le politiche, anche nel nostro paese, nel nome della crisi economica si sono fortemente ridotte, la prevenzione è stata stroncata del 50%. Sempre perché è il dato economico quello che penalizza tutto. Dipende come investi poi i soldi… Ma la droga continua ad esserci. Ce n’è tanta, sempre di più. Io devo lavorare per fare in modo che la gente non arrivi a drogarsi, però dobbiamo anche chiederci come fare per sconfiggere un mercato in mano a questi criminali, ma che ha anche delle coperture. E’ per questo che gli armadi di Vienna devono aprirsi.

Ma in questo senso c’è un doppio ostacolo alla legalizzazione: una falsa morale nell’opinione pubblica e poi lo scoglio politico.
Non ti so dire se è bene, se è male, eccetera. Dico solo che bisogna trovare veramente la volontà, liberi. La riflessione deve essere fatta, sempre a partire dalla dignità della persona, ma che venga fatta su tutte le forme di dipendenza perché ci si accanisce in una direzione e si dimenticano le altre dipendenze. E’ una riflessione molto seria partendo per esempio dal gioco d’azzardo. Gruppo Abele pubblicò un libro denunciando queste forme di dipendenze e ci risero in faccia, mentre adesso tutti ne parlano. Anoressia e bulimia: chi l’avrebbe detto quando anni fa l’anticipò il Gruppo Abele. E’ un’altra sofferenza, un’altra forma di dipendenza, oltre al fumo, l’alcol. Abbiamo bisogno di una grande riflessione e non solo leggere in una direzione. Ci vuole che la politica affronti realmente questo problema. Io non ho la formuletta in tasca, credo che, però, la “lotta alla droga” l’abbiamo veramente persa tutti nell’arco di questi anni. Nel nostro paese, l’Italia, anni fa faceva notizia se un ragazzo moriva di overdose. Adesso sono riprese le morti, nonostante la presenza di farmaci e altro, ma non fa più notizia. Si dà quasi per scontato, è venuta meno quell’indignazione vera che scuote le coscienze e ci fa mettere in gioco.

Beh, qui il grande scossone è stato sicuramente il crimine contro i 43 studenti di Ayotzinapa.
Me lo ricordo bene perché mi arrivò una lettera quando stavamo facendo Contro-Mafie in Italia, un evento biennale cui partecipano più di tremila persone e lavorano in gruppi. All’assemblea conclusiva a Roma era arrivata una lettera di alcuni ragazzi messicani. Il loro grido dal Messico era: “Fate qualcosa, ditelo al mondo”. Davanti a tutte quelle persone e ai media ho dato la denuncia. Ho letto quella lettera perché mi hanno scritto un testo pesante e drammatico chiedendo di non essere abbandonati “davanti ai criminali e ai politici mafiosi che usano polizie ed esercito per sequestrare”. E alla fine si sono mossi di più. Allo stesso modo non vanno dimenticati gli altri ventiseimila.

Il problema di molti casi qui in Messico, tra cui la “notte di Iguala” e la persecuzione contro gli studenti di Ayotzinapa, è che viene riscontrata dall’inizio la partecipazione della polizia e di organi statali a vari livelli all’interno di operazioni complesse.
Non basta solo indignarci e commuoverci al riguardo, dobbiamo muoverci di più tutti. Attenzione che qui c’è un livello di corruzione… Non devo spiegarlo io a voi. Ma lo stesso elemento che ha visto degli apparati dello stato coinvolti c’è anche in Italia, c’è un processo Stato-mafia in atto nel nostro paese che ha visto la complicità degli uomini degli apparati dello Stato. I mafiosi sono nessuno. Nessuno. Riescono a realizzare i loro obiettivi perché trovano alleanze e compromissioni con segmenti della politica e della finanza, dell’economia. Trovano professionisti che si mettono al loro servizio.

Qual è secondo te il peggior nemico della mafia?
Beh, direi che siamo noi. La grande rivolta deve partire dal basso, è la rivolta delle persone che dal basso sentono dentro di loro che il cambiamento ha bisogno di ognuno di noi. Noi dobbiamo essere un cambiamento. Queste realtà che ho incontrato sono un segno di speranza: visti male da molte istituzioni e ostacolati, sono un segno che dimostra che la strada è questa. Cittadini più responsabili e gruppi che agiscono, però la politica dovrebbe creare le condizioni.

Il problema messicano è che più che “creare condizioni” si creano ostacoli alla libertà di stampa e all’organizzazione e la protesta popolari che di solito vengono smantellate.
La presenza di Libera e la rete ALAS, che promuove l’antimafia sociale, serve a fare in modo per prima cosa di non lasciarli soli, di dare loro un respiro più internazionale con cui arricchirsi reciprocamente e creare visibilità.

Com’è stato il tuo incontro in Messico coi genitori di Gisela Mota, la sindachessa di Temixco assassinata da presunti narcotrafficanti di fronte all’inizio di gennaio?
Coi familiari delle vittime ci lavoro da anni e non è un lavoro, è un incontro e ti cambia la vita. Senti più prepotente dentro di te il desiderio d’impegnarti, di fare qualcosa, anche se ti senti piccolo o fragile, perché ci sentiamo tutti piccoli e fragili. Però la convinzione è che non dobbiamo fermarci, dobbiamo avere più coraggio e far emergere le cose positive che ci sono per stimarle, valorizzarle e non lasciare sole queste persone. E’ stato un incontro che porterò profondamente nel cuore. E’ uno dei tanti incontri che ho vissuto con familiari in questi anni per il mondo di fronte ai quali non ci sono parole. Abbiamo parlato anche con tanti silenzi, ma ho trovato in loro una grande dignità. L’incontro, per la loro e la nostra sicurezza, l’abbiamo dovuto fare in un luogo che non fosse casa loro.

Quando ci siamo lasciati mi han detto una cosa che mi ha molto colpito. Mi han detto: “Speriamo che sia andato tutto bene”, ma non parlavano di noi e della visita. Il nostro è un incontro che proseguirà per non lasciarli soli e perché Gisela deve vivere attraverso l’impegno di tutti. E perché quei proiettili che hanno ucciso questa ragazza… O sentiamo che hanno colpito anche noi oppure diventa una memoria di incontri molto retorici. La loro preoccupazione era nei nostri riguardi, speravano che non ci avessero seguiti e visti. Loro han cercato di fare un incontro perché temono ritorsioni. Il papà e il fratello hanno rincorso i criminali dopo la sparatoria contro Gisela. C’è stato poi uno scontro con la polizia, alcuni dei delinquenti sono morti. Quindi ci siamo visti lontano da casa. La mamma mi ha detto che la gente le chiede di candidarsi al posto di sua figlia. Ne abbiamo parlato un po’ e non so se lo farà o no. So solo che ho ricevuto ancora una volta una lezione perché penso a cosa vuol dire per un papà, una mamma o un figlio vedersi uccidere le persone care davanti agli occhi. Io lo vivo profondamente dentro e ti senti impotente, ma senti ancora di più la voglia di dire “uniamo le nostre forze, con umiltà, ma uniamo le nostre energie perché non è possibile”.

Conosci il poeta Javier Sicilia, fondatore del Movimento per la Pace con Giustizia e Dignità nel 2011 che è stato per molti mesi il riferimento del movimento delle vittime della narcoguerra messicana?
Sì, abbiamo passato del tempo insieme. Ieri a Cuernavaca abbiamo parlato molto, abbiamo fatto un dibattito e un incontro bellissimo. E’ venuto anche lui coi genitori di Gisela. Abbiamo fatto un dibattito anche su quello che stanno facendo loro, per me molto arricchente. Abbiamo parlato di un po’ di tutto perché le ferite delle persone non si chiudono mai dentro.

Dopo l’arresto del Chapo Guzmán, capo del cartello di Sinaloa, il presidente del Messico ha approfittato per ribadire la “solidità delle istituzioni” e ricordare le varie catture di boss realizzate. Basta questo? Cosa cambia nella guerra alle droghe?
Ne ho parlato proprio in un’intervista con la giornalista Carmen Aristegui alla CNN. Ho paura di questi miti perché c’è il rischio che tutta l’immagine e l’attenzione siano focalizzate lì e poi ci si distragga da altro. Preso un capo, viene subito sostituito da altri, quindi attenzione a non farne dei miti.

Twitter @FabrizioLorusso


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