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Don Colmegna e la Casa per gli ultimi

Creato il 11 dicembre 2012 da Tipitosti @cinziaficco1

“La casa dove abito ospita le persone più indesiderabili della città. Non chiedetemi le ragioni non le conosco. Vivo questa vicinanza, e basta. Questa prossimità con gli ultimi della fila è impastata di difficoltà, i risultati sono lontani, incontro l’indifferenza che cresce. Posso dire che mi sento anch’io fuori, come loro, portatore di un linguaggio dimenticato”.

A parlare così è don Virginio Colmegna, che di recente ha scritto un libro: “Ora et labora – La chiesa che vivo”- Chiarelettere, in cui racconta come è nato il suo desiderio di vivere in modo diverso tra gli umili e diffondere “irresistibili e profonde notizie, che siano a beneficio di chi le riceve e non solo di chi le dà”.

Don Colmegna e la Casa per gli ultimi
Don Colmegna, infatti, nato a Saronno nel 45, è un sacerdote molto particolare. Nel ’93 per volere del cardinale Carlo Maria Martini è  stato designato direttore della Caritas ambrosiana. Il 31 dicembre 2004 ha lasciato questo in carico per dedicarsi a tempo pieno alla fondazione della Casa della Carità Angelo Abriani, a Milano, di cui è presidente.

E’ diventato il portavoce dei poveri, delle prostitute, degli immigrati, dei disabili. E questo perché, riprendendo Frei Betto, dice: “Dai sotterranei della storia arrivano alcune evidenze e si aprono brucianti domande che hanno il potere non di condannarci all’immobilismo, ma di mettere le ali ai piedi. Ecco cosa imparo dai poveri e come essi sanno muovermi oramai da tanti anni. Ancorati alla concretezza e pieni di speranza, mi danno cultura fresca e chiavi  interpretative per cogliere la realtà. Dalle pieghe della disperazione può nascere una speranza ostinata, gridata, netta, senza orpelli inutili né compromessi. Non voglio essere il prete dei gesti sensazionali e strappalacrime, delle storie che colpiscono emotivamente  e fanno parlare la stampa per qualche settimana, delle buone azioni che mettono a posto le coscienze intorpidite, perché non è per questo che sono nella Chiesa e non è per questo che vi resto con passione, attraversando anche tempi significativi di crisi personale e sociale”.

Don Colmegna, lo dice chiaramente, la fede religiosa che consegna le buone parole della carità, lo irrita. “Nella quindicenne che ha partorito l’altra notte – in quei tre bambini con le loro mamme sbattuti fuori dal dormitorio pubblico, nel bambino di un anno che la madre ha reincontrato dopo che  con la nostra vicinanza l’ha riavuto dal Tribunale dei minorenni, in queste situazioni trovo un dono grande e indecifrabile”.

Un tipo tosto, dunque, il sacerdote che con la sua Casa della Carità ha deciso di “smontare la cultura della violenza, accettando la sfida di stare nel mezzo”. In che senso? “Dobbiamo accettare di scendere da cavallo – fa capire – e fermarci. Spesso l’inferno è in periferia, per questo anche quell’ospitalità senza confini, senza convenzioni, che rischia, va riscoperta. Non abbiamo sbagliato accogliendo dopo gli sgomberi: è la nostra scelta culturale, quella di farci accompagnare in questa discesa agli inferi. Stare nel mezzo significa avere la capacità di sostare, di non farsi prendere dalla genericità  dell’azione che rende tutti uguali, poveri senza volto”.

E la Casa della Carità è questo. La strtutura abita il confine, un luogo non soltanto materiale, “dove – scrive don Colmegna - non si può vivere senza un profondo coinvolgimento interiore ed emotivo, che ci mette in dialogo con noi stessi.

Abitare qui – fa sapere – non significa semplicemente prendere una residenza, significa sentirsi dentro una responsabilità comune. Proprio tutti, dagli operatori ai volontari fino agli ospiti e a  coloro che, non potendo avere un alloggio, hanno qui comunque una residenza anagrafica, che non rappresenta un semplice fatto burocratico, ma è anzitutto una conferma pubblica di esseri presa a carico, di non essere anonimi”.

Nella Casa della Carità si vive, sì, l’emergenza, ma non come uno slogan, piuttosto come una sfida seria, “che ci trascina – aggiunge il sacerdote – ogni giorno in una grandissima battaglia culturale”. Quella di chi vive nella Casa è quasi una scelta interiore, animata “dall’urgenza – si legge – di non dissipare quanto  c’è di nuovo e di inedito nell’essere in emergenza. Questo ancora di più quando l’emergenza non si avverte come un pericolo, ma diventa una compagna di viaggio, accanto a noi e anche dentro di noi.  L’emergenza ci dà subito il senso del limite, ci insegna a non diventare severi censori degli altri, animati da una curiositas che ci deve sempre far intravedere e custodire la risorsa possibile. L’emergenza rende tutto un po’ precario, e la sfida è quella di rendere questa precarietà un’opportunità per valorizzare quanto esiste, per non tagliare fuori”. Casa della carità, dunque, altro non è che la testimonianza concreta  che si può ricostruire e rilanciare un modo di vivere autenticamente comunitario, in cui la carità entri ad orientare la convivenza civile.

Un libro da non perdere per avere un faro in un momento in cui sembrano frantumarsi la speranza e la solidarietà.

   Cinzia Ficco


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