Probabilmente rodato nei racconti popolari a sfondo morale, originatisi in non si sa quale parte d’Europa, ma che trovarono una confortevole culla in Spagna, il Don Giovanni fece il suo debutto ufficiale in teatro nel dramma Burlador de Sevilla y convidado de piedra del 1630, attribuito non unanimemente a Tirso de Molina. Il soggetto venne fatto proprio dalla Commedia dell’arte italiana che lo sfruttò per gli evidenti spunti farseschi che suggeriva la storia. Moliere ne fece una commedia tragica, cogliendo l’ambivalenza del personaggio e contribuendo in modo fondamentale alla fortuna letteraria della leggenda, ripresa successivamente da giganti come Goldoni, Byron, Puskin, Hoffman, T. Gautier, Shaw. Anche nel teatro musicale, Don Giovanni non tardò a divenire protagonista, dopo aver esordito già nel 1676 in The libertine di Purcell. Nel 1760 Gluck ne trasse il balletto Don Giovanni o Il convitato di pietra e nel 1786, un anno prima del capolavoro mozartiano, Giuseppe Gazzaniga compose un omonimo dramma giocoso su libretto di Bertati.
Con Mozart e Da Ponte, Don Giovanni raggiunse quella caratura archetipale che ne ha fatto, al pari di Faust e Amleto, un mito fondatore della modernità. La prospettiva etica – la punizione del dissoluto che si spinge fino all’assassinio per garantirsi il peccato – resa palese sin dal titolo originale (Il dissoluto punito ossia Don Giovanni) viene risolta in maniera didascalica e sbrigativa dai due, tanto da far pensare più all’osservanza delle convenzioni (onde evitare censure e polemiche, vista la scabrosità della vicenda), che a un messaggio condiviso dagli autori. Prova ne sia la differente trattazione della scena del convitato rispetto al conseguente finale: la prima, una delle vette assolute della storia dell’Opera, in cui la sintesi tra teatro e musica si compie in una tensione drammatica che anticipa l’ottocento; il finale, accademico e didascalico, conservatore dello status quo. Lo stesso sprofondamento negli inferi, d’altronde, se da una prospettiva morale rappresenta inconfutabilmente la giusta punizione, d’altra parte è anche un rito di passaggio fondamentale nel percorso di formazione del mito.
Dietro il peccatore impenitente, più che un archetipo, si cela un arcipelago archetipale, non solo della modernità. Don Giovanni è il vitalista che non tollera lacci e lacciuoli imposti dalle convenzioni sociali e religiose; l’esteta del piacere che vuole reiterare in eterno la prima volta, possibilmente con la giovin principiante; l’edonista disincantato, fino al limite del nichilismo, che rivendica la libertà di godere come unica giustificazione alla noia e alla fatica della vita. La nietzscheana volontà di potenza si esplica esclusivamente nella copula e nella conquista sessuale. Anche Zerlina, di fronte a una prospettiva di vita libertina, canta “vorrei e non vorrei”; la differenza è che Don Giovanni vuole e soprattutto può. Ma è anche l’archetipo maschile atavico dell’harem e dello spargimento del seme, della sessualità aggressiva del maschio cacciatore. Il suo cedimento alle passioni non ha nulla di bestiale, ma possiede uno spessore intellettuale, filosofico. Il rifiuto senza tentennamenti del pentimento rivela valori sorprendenti per un peccatore recidivo, come la dignità, l’onestà intellettuale e la coerenza.
Ma Don Giovanni ha anche uno spessore umano, segnato dalla patologia, dal suo essere agito da “odor di femmina”, che lo pone aldilà del concetto di colpa e di responsabilità, attenuando, se non invalidando, il giudizio morale per i suoi peccati. In lui, la possessione del demone del sesso trascende il libero arbitrio; il libertinaggio assume un carattere mistico, sacrale, ben più profondo dell’edonismo fine a sé stesso. Attraverso Don Giovanni, l’ordine naturale si ribella al contratto sociale; la beffa nei confronti delle convenzioni diviene una ragione di vita. Per questo, in un contesto in cui le persone dabbene rivelano la loro consistenza impalpabile di sagome e caricature, Don Giovanni è l’unico vero perno drammatico dell’Opera; solo il Convitato di pietra, il soprannaturale, è in grado di reggere il confronto. In mezzo a tanta mediocrità, la sua caratura si ingigantisce, fino a divenire il messia del titanismo romantico, estrapolato dal mondo dei racconti moralistici da Mozart e Da Ponte per essere consacrato alla mitologia.