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Don #sturzo e l’#agricoltura: unire la terra al cielo

Creato il 27 febbraio 2016 da Libera E Forte @liberaeforte

download (2)Don Luigi Sturzo aveva 23 anni, quando nacque in lui una grande curiosità di conoscere le questioni sociali. Negli anni 1894/95 i moti rivoluzionari dei fasci siciliani causarono spargimento di sangue. Quei moti impressionarono fortemente l’accesa immaginazione del giovane prete e fu allora che Don Sturzo si rese conto che “la questione sociale stava per assumere grande importanza, se per cercarne una soluzione gli uomini erano giunti a spargere del sangue e a sacrificarvi la vita”. Ma questo interesse, che nel sacerdote siciliano doveva assumere presto il carattere di una vera e propria vocazione, non nacque e si accrebbe in modo distinto dalla sua vocazione sacerdotale, bensì come una concreta occasione per concentrare le sue energie di ricercatore teorico e di organizzatore politico, e per contribuire in tal modo alla salvezza delle anime. Infatti la salvezza delle anime è rimasta la sola preoccupazione della lunga esistenza di Don Luigi Sturzo, tanto che non è possibile comprenderlo come amministratore pubblico, politico, statista, sociologo e polemista, se non si tiene conto che questi aspetti della sua eccezionale personalità sono stati altrettanti modi di espletare la sua missione sacerdotale, alla quale aveva deciso – quando aveva appena 11 anni – di dedicare l’intera sua esistenza. Le misere condizioni dei contadini siciliani; le sovrastrutture delle intricate affittanze, che gravavano pesantemente sulla loro dura fatica; il loro isolamento di fronte ai pochi profittatori, che praticavano l’usura e la mancanza di ogni assistenza tecnica ed economica nelle campagne furono i primi fatti che colpirono il cuore generoso di Don Sturzo. E fu poi in favore dei contadini più bisognosi che egli iniziò a sperimentare le sue eccezionali qualità di organizzatore meticoloso e instancabile. Il poco contante, che l’unità d’Italia aveva trovato in Sicilia, era affluito per duplice via nelle casse dello Stato: il pagamento del prezzo delle proprietà ecclesiastiche e demaniali, che lo Stato aveva venduto ai nuovi ricchi, e gli sportelli postali, che raccoglievano lo scarso risparmio in ogni piccolo e grande comune. Così la mancanza di una sufficiente organizzazione bancaria lasciava l’economia (e in particolare i contadini) alla mercé degli usurai e degli speculatori. Don Sturzo si rese conto dei danni che la gente di campagna veniva a soffrire in conseguenza di ciò e subito dedicò i suoi sforzi a promuovere e a organizzare Casse Rurali per il credito e Cooperative per la vendita e la trasformazione di prodotti agricoli. Egli fece questa esperienza a spese delle sue energie e del suo patrimonio famigliare. Proprio la sera prima di ammalarsi, il venerato Maestro, parlandomi di queste prime sue esperienze, mi raccontò che dovette pagare con mezzi della sua famiglia alcuni errori commessi nell’organizzare le prime cooperative agricole. Sicché Don Sturzo iniziò a occuparsi dei contadini più bisognosi dedicandovi non solo intelligenza, amore e fatica, ma anche propri mezzi finanziari. Nel 1897 egli iniziò a Caltagirone la pubblicazione del periodico “La Croce di Costantino” e ne faceva uno strumento di formazione politica dei democratici cristiani siciliani e un’arma di lotta in difesa dei contadini della provincia di Catania e contro i latifondisti, i gabellotti (che davano la terra in sub-affitto o a mezzadria) e i commercianti speculatori, che per questo giunsero più volte a minacciarlo di morte. Come pro-sindaco di Caltagirone, Don Sturzo promosse l’istruzione agraria, i miglioramenti fondiari, l’innesto di varie migliaia di piante d’olivo, il rimboschimento di vaste aree comunali, dichiarando guerra ai caprai, che giunsero anch’essi a minacciarlo di morte. Affrontò da solo questa minaccia, presentandosi senza scorta a fare la guardia ai primi alberi piantati. Questa prova di coraggio – come egli un giorno mi raccontò – costrinse i caprai al rispetto e alla resa per i danni che le capre facevano nei boschi, che così poterono crescere indisturbati. L’idea del rimboschimento è rimasta sino alla morte una nota fondamentale della politica agraria concepita da Don Sturzo. Egli riteneva molto rischioso fare grandi investimenti per valorizzare le zone di pianura e di mezza collina senza prima porle al riparo dalle alluvioni, causate dal disboscamento e dalla indisciplina idrica delle montagne. Anche di recente e per quanto ha potuto, egli ha promosso in Sicilia l’impianto di pioppeti e di eucalipti, giungendo sino a far sorgere delle cartiere nelle zone circostanti. E ciò egli ha fatto per dare prove concrete che la montagna e l’alta collina possono tuttora alimentare una prospera vita economica, purché restituite alle naturali attività silvo-pastorali, riordinate nel possesso fondiario e organizzati i contadini in società cooperative. Al rimboschimento dell’Italia meridionale Don Sturzo ha dedicato gli ultimi suoi articoli e si proponeva di dedicarne altri durante questi mesi estivi, che egli avrebbe voluto trascorrere nello studio più approfondito dello sviluppo economico del Mezzogiorno. A questo proposito, proprio negli ultimi giorni della sua preziosa esistenza, egli era solito ripetermi: “Non è possibile eseguire seriamente un vasto programma di industrializzazione dell’Italia meridionale, se non si accompagna la sua esecuzione con una avveduta politica di accelerata valorizzazione dell’agricoltura, che resta e resterà ancora per molti anni la forma prevalente dell’economia del Sud”. Ed egli dedicò proprio a questo argomento l’ultimo suo colloquio con me e con l’Ing. Marcello Rodinò, che era venuto a esporgli un suo progetto per l’industrializzazione del Mezzogiorno. E fu in quell’ultimo colloquio che sentii l’amato Maestro ripetere alcune delle sue tante chiare idee sul ruolo della agricoltura nello sviluppo economico italiano: “Industrializzazione significa anche ricerca di sbocchi commerciali alle nuove produzioni e per il Sud – come del resto in ogni altra economia – è il progresso agricolo (miglioramento del tenore di vita dei contadini, maggiore impiego di mezzi meccanici, più accurata selezione delle colture, migliore trasformazione dei prodotti della terra) che può conferire la giusta dinamica e il successo alle nascenti industrie”. Di recente Don Sturzo era interessato a conoscere le conseguenze per l’agricoltura meridionale dell’entrata della Spagna nell’OECE. Saputo che quel Paese aveva concentrato i suoi sforzi di progresso nel migliorare le produzioni agricole di esportazione, si poneva il problema della concorrenza che la Spagna avrebbe potuto farci con salari agricoli che oscillano dalle 300 alle 400 lire al giorno. Da questo fatto egli traeva ragione di insistere nel puntare sulla maggiore produttività dell’agricoltura italiana, in genere, e su quella del Sud, in particolare, per far fronte alla prevedibile crescente concorrenza dei vicini paesi emergenti. Appena entrato in vigore il Trattato della CEE, Don Sturzo volle avere un quadro comparativo dei prezzi dei principali prodotti agricoli praticati nel sei paesi del MEC. Quando si rese conto della quasi coincidenza di tali prezzi alla produzione e del forte divario che si notava invece in Italia con i prezzi al consumo, egli volle subito approfondire lo studio delle cause di tale divario per denunciarle con i suoi articoli. E tentò molte vie d’indagine per svelare i misteri del Consorzio Zuccheri, dei mercati generali, delle sofisticazioni dell’olio d’oliva, dei vini, del burro, etc. Insomma posso testimoniare che la fatica e l’avvenire degli agricoltori erano al centro dell’attenzione del suo cuore generoso, che vedeva nel miglioramento delle loro condizioni di vita un modo per spianare la via che unisce la terra al cielo.

Giuseppe Palladino *

*Nel mettere in ordine le centinaia di articoli scritti con penna biro da mio padre, ne ho trovato uno scritto pochi giorni dopo la morte di don Luigi Sturzo, avvenuta l’8 agosto 1959. Lo pubblico per la sua “drammatica” attualità, viste le condizioni in cui si trova l’agricoltura del Mezzogiorno e in particolare il suo dilapidato patrimonio boschivo. Giovanni Palladino


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