Mons. Tonino Bello
Era un poeta, era uno scopritore di stelle. Ma era, soprattutto, un santo, e i santi sono rari, sono persone che portano sulle spalle anche le nostri croci, ma con gioia, con un amore illimitato, a prova di tutto, i santi sono i giullari di Dio, come San Francesco d’Assisi, che portano un soffio di speranza sulla salvezza dell’uomo, nonostante tutto.
Mi vengono in mente queste parole di don Riboldi, in quel pomeriggio d’aprile di tanti anni fa, a Taviano, città dei fiori, quando venne il vescovo lombardo, con tanto di scorta (era per antonomasia il prete-antimafia, che aveva osato accusare dal pulpito la camorra napoletana di tutte le violenze, il sangue, la ferocia, le stragi, lo strazio infinito, la morte della speranza, le infamie più immonde, era colui che aveva negato la comunione a uno di loro, che aveva fatto crociate, processioni per le strade di Acerra, che aveva bandito, esiliato tutti i collaboratori occulti della mafia, che aveva spronato i pavidi e i timidi a unirsi tutti insieme alla lotta, un prete con la fede e con le palle che aveva osato sfidare la mafia, che aveva – già anni prima – sposato la causa meridionale, per amore, solo per amore.
Era venuto a Taviano due o tre anni dopo la morte di Don Tonino (eravamo nel 1995, o nel 1996), e Lui era venuto nel Salento per onorarlo, ma anche per portare testimonianza, per dire a chiare note con la sua voce robusta, tonante, vibrante, che don Tonino era la purezza della vita librata sul mondo, uno di quei doni che il Padre Eeterno elargisce una volta ogni secolo, e che noi spesso non ce ne accorgiamo, non vediamo, non ascoltiamo, rimanendo prigionieri nella sfera angosciosa del nostro nulla (il posto di lavoro, la casa, i soldi in banca, le cose da esibire, la nostra falsa tranquillità, la nostra falsa sicurezza, sempre ben chiusi nel bunker che è il nostro cuore, un lago di indifferenza)
Don Tonino era stato ed era ancora lì dove si raccolgono tutte le ansie le pene le ingiustizie le umiliazioni, le sconfitte, le macerazioni, le disperazioni, dove tutte le passioni della terra si uniscono per far trionfare la giustizia, la pace, la solidarietà, il bene comune, e diventano carezza di voce, tenerezza, rinascita.
Lui solo, Tonino da Alessano, era il vero grande cuore, la grande anima, la speranza Salentina, e da lui bisognava iniziare ogni progetto, ogni costruzione affinchè il Salento diventasse davvero quell’ arco di pace e di solidarietà di cui aveva sempre parlato. Tonino è già santo, non c‘è bisogno di alcun processo,di alcuna causa di beatificazione per averne conferma. Dai numeri alterni, dalla danza perenne di nascite e morti, da celesti città di sabbia o infernali città di fuoco, da imperio e servitù, da inedia e opulenza, da grazia e venustà, da asprezza e calma, dalle dominazioni di secoli su una terra che vomita morti, dal profondo Salento, quello del Capo, a poche miglia da Leuca finibus terrae, era nato lui, Tonino Bello, terzo figlio di una famiglia poverissima. Lui era miele di miele, sostanza di sostanza, essenza di essenza, l’amore che aiuta a vivere e a sperare, ma anche un prigioniero nella sfera delle nostre piccolezze, abitudini, indifferenze, grigiore; era venuto a scuotere, a far crollare le nostre sicurezze, le nostre certezze con le parole del Vangelo, parole che fanno sempre male per chi non conosce l’umiltà di cuore. Tra fuori e dentro, tra l’altro e noi, tra l’istinto animale e il collegamento divino, s’infiltrava lui come una passione senza limiti, senza confini, senza spazi, ed era accettato da giovani, dai poveri, dai diseredati, dai drop out, dagli ultimi, combattuto dagli altri, dai potenti, dai benpensanti, dalle istituzioni, e, talora, dai suoi stessi confratelli. Lui era l’altrove.
Lacrime per il fratello vescovo
Don Tonino Bello, il fratello vescovo, il profeta della chiesa del grembiule, l’uomo tutto evangelico, le cui spoglie mortali si trovano nel cimitero di Alessano, nella sua piccola patria natìa, in quel recinto della febbre e della polvere dove per mille anni il nascere fu spento, e del perire non ci fu traccia; ora c’è lui, Tonino riposa lì, dove suo fratello Trifone ha piantato un ulivo che fa ombra e musica sulla pietra tombale, e poi ha costruito un arco di pace, in pietra viva, che guarda a oriente. E tutt’intorno ha disposto i bianchi gradini, che sanno di eternità silenzio e preghiera; un piccolo sacrario dove molte persone s’adunano per un saluto, un’orazione, una meditazione, un lieve bacio un sospiro nell’orlo della luce, spargendo profumi di nostalgiche memorie.
A pregare su quella tomba c’era stato anche lui, Riboldi ed era venuto nudo, come il più nudo dei misteri (via i paramenti, via la scorta, via il seguito religioso e civile, via le voci, i suoni, le immagini, le parole). E stava lì in silenzio a delirare coi suoi ricordi, lui e l’amico insieme sulla croce, o nella sua casa di Milano, insieme a pregare con vibranti parole mute, ma anche a scherzare, a sorridere impacciati davanti al Cardinale Martini; era lì a risvegliare l’amico verso il profilo della sua reincarnazione, sotto i flutti dell’oscurità della prima alba, a piangere umilmente, sì, ora piangeva e con lacrime che facevano laghi sulla pietra intatta, a mormorare frasi alla sbiadita luna come un errante pastore dell’Asia.
Riboldi aveva poi offerto le proprio testimonianze sulla figura del vescovo di Molfetta, venerato in tutta la Puglia come un santo da migliaia e migliaia di persone (perfino dal Governatore Vendola quando parla di lui s’accende, s’illumina, arde, brilla), che custodiscono come preziose reliquie i suoi ultimi sguardi, le sue ultime parole di poeta di Dio:
Che cosa faranno gli alberi stanotte, quando suoneranno a stormo le campane? Come reagirà il mare che brontola sotto la scogliera, all’annuncio della risurrezione?… L’angelo farà fremere le porte dei postriboli? E le montagne danzeranno di gioia attorno alle convalli?…Non c’è amarezza umana che non si stemperi in sorriso. Non c’è peccato che non trovi redenzione. Non c’è sepolcro la cui pietra non sia provvisoria sulla sua imboccatura. Anche le gramaglie più nere trascolorano negli abiti della gioia. Le rapsodie più tragiche accennano ai primi passi di danza. E gli ultimi accordi delle cantilene funebri contengono già i motivi festosi dell’ alleluja pasquale.
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