Quando il padre prese tra le braccia quel piccolo essere congestionato, urlante come un ossesso, graffiato sulle guance e con quattro peli a ciuffo sul cranio, disse ammiccando alla moglie, ancora affranta sul letto del parto :“ La chiameremo Angelica. Sono certo che avrà bisogno di un nome beneaugurante.”
Angelica nel giro di pochi giorni perse il colorito paonazzo e il pianto singultante; la pelle del viso divenne rosea e setosa, accanto al ciuffo natale era già spuntata una peluria più chiara che prometteva una folta capigliatura. Dunque l’augurio aveva funzionato.
Sei mesi più tardi fu battezzata ed era una rosea bambolina elegantissima, in bianco come una sposa, già sorridente a destra e a manca, senza problemi a passare da un braccio all’altro.
Angelica fu dunque il suo nome e Beata il secondo nome datole dal sacerdote officiante.
Più tardi qualcuno avrebbe ironizzato sul suo doppio nome Angelica Beata e Beata Angelica… con tutto quello che ne seguiva sul piano sociale e su quello culturale.
Angelica passava immune attraverso i pettegolezzi e le ironie; volgeva il suo sguardo di intenso freddo azzurro che abbagliava e raggelava , sollevava appena il mento e passava come passa una regina.
Che fosse una regina di cuori lo si comprese abbastanza presto: già alla scuola materna tutti i maschi le si radunavano attorno e aspettavano un suo sorriso e la sua indicazione prima di aprire i giochi; ma anche le bambine la amavano con lo stesso trasporto. Lei donava la sua grazia e la sua benevolenza a quanti la chiedevano e non era raro che si sostituisse alla maestra per porre pace ad un litigio, per far recedere un pianto. Angelica lo era, di nome e di fatto. Inoltre era bellissima, con lo sguardo intenso, le proporzioni perfette, la voce gentile, la fronte alta e l’ovale del volto contornato da una fluida chioma biondo-castano.
Fu intorno ai dieci anni che Angelica si rese consapevolmente conto della propria infelicità; rideva e sorrideva per far contenti gli altri, era gentile perché aveva capito che la scortesia deludeva , quando non faceva male, chi la subiva; faceva in modo di rispondere sempre alle aspettative altrui. Ma lei chi era ? a lei chi pensava? al di là dell’accudimento amoroso del suo cibo e del suo abbigliamento, nessuno le chiedeva mai se fosse felice, che cosa provasse nel suo intimo.
Aveva preso a inanellarsi una piccola ciocca di capelli attorno ad un dito e ripeteva quel gesto continuamente; quando la madre le aveva detto di smettere quel comportamento perché non era elegante e si sarebbe per di più rovinata i capelli, la bambina non ce l’aveva fatta a ubbidire. Per di più aveva anche preso a spalancare di tanto in tanto gli occhi sbattendo le lunghe ciglia.
Nessuno aveva sospettato che quei tic fossero spia di un disagio ormai travasato nella carne.
Anche a scuola aveva sovente un atteggiamento svagato e solo la volontà di non deludere la spronava a farsi attenta e presente, a rispondere all’appello , a passare un compito, a suggerire una risposta.
Lentamente, con il passare dei mesi e degli anni, Angelica si allontanava da tutto e da tutti: mangiava perché le mettevano il piatto davanti, si abbigliava perché avrebbe scandalizzato la madre per prima; fosse stato per lei si sarebbe chiusa nella sua stanza con gli occhi chiusi e avrebbe spento definitivamente il flusso dei pensieri che già era diventato esile.
Ora erano preoccupati in tanti della sua salute mentale. Lei avrebbe voluto sorridere, ma non aveva più voglia di compiacere nessuno. Non era ostile, era indifferente.
Rese la sua stanza già linda e ordinata, quasi monacale.
Tolse i poster, i pupazzi di peluche, gli altri ammennicoli che si portava dietro dall’infanzia: restò un letto riordinato, la scrivania senza un libro e senza un filo di polvere, una poltroncina.
Gli amici , avvertiti, la invitavano : si sarebbe andati dove lei preferiva, anche solo in pizzeria, in gelateria, al bowling,…
Ma lei non aveva preferenze. Anzi voleva starsene lì nella sua stanza , sola.
Nel frattempo la sua bellezza era fiorita in un fulgore raro, ma quasi nessuno aveva il piacere di ammirarla.
Finì da uno psicoterapeuta. Giovane, di poca esperienza, di molta buona volontà.
Gli parve di riuscire a penetrare nel guscio del malessere della ragazza; parlava molto lui, lei interveniva su richiesta a monosillabi o comunque con frasi scarne.
Finì che il giovane terapeuta si innamorò di quella splendida ragazza, statica e quieta, che a volte faceva lo sforzo di sorridergli.
A colloquio con i suoi genitori chiese di poter cessare il rapporto medico paziente e di chiedere ad Angelica di uscire qualche volta con lui. Lei non accettò ma neppure rifiutò.
La prima volta andarono al cinema e lui si impedì di toglierla dal suo silenzio. Era un successo che fosse uscita.
Le uscite si ripeterono: ci fu una visita ad una mostra di pittura, un concerto, un paio di ore in pub… Angelica si lasciava sfiorare, rispondeva in modo più articolato, gli sorrideva brevemente. Non si guardava mai attorno come se non fosse consapevole di attirare l’attenzione di tutti i maschi nel raggio di qualche centinaio di metri; lui invece ne era ben cosciente e stava sulla difensiva.
Una sera che lei era sembrata più accessibile, la accostò a sé e provò a sfiorarle le labbra con un bacio.
Angelica diventò una statua di marmo: dura, assente. Nemmeno lo allontanò, non lo investì con un rifiuto, niente.
La regina di cuori era più dolorosa di una regina di picche.
Il terapeuta capì che non sarebbe riuscito a scuoterla, la accompagnò a casa e disse ai genitori ancora in piedi che lui rinunciava a tutto, che si rivolgessero a qualcun altro, magari più esperto di lui. Fece anche il nome di un paio di luminari.
Nella sua stanza , intanto, Angelica accendeva e spegneva la piccola luce a led: ogni accensione proiettava un piccolo fascio di luce azzurrata e fredda sul soffitto, ogni spegnimento proiettava la stanza nel buio nel quale nuotavano residue macchioline di luce.
Era come essere dentro di sé: luce, oscurità, oscurità, pallida luce. Di nuovo oscurità. poi esigua luce fredda, un attimo.
La mattina seguente rifiutò con un cenno la colazione, a pranzo disse che non aveva fame; la madre pensò di misurarle la febbre: nessun rialzo termico, nessun colpo di tosse.
Passerà, si disse. Invece non passò. Angelica non mangiava più, perse molto peso in poco tempo.
Ci si rivolse a specialisti, fu ricoverata. Non cercarono di indurla a mangiare forzosamente, ma la imbottivano di farmaci e di pillole sostitutive a base di carnitina e di vitamine. Lei era sempre più distante.
Angelica stava diventando un angelo deperito, giallognolo di carnagione, con i capelli radi e fini, gli occhi immensi circondati da palpebre di un rossore malsano.
Aveva abbracciato la fredda sorella ignuda, la morte, come il recapito di una lettera finalmente giunta a destinazione.
Fu nutrita forzatamente, fu idratata, precipitò in un coma senza attese.
Fino a quando?, piangeva sua madre, fino a quando?
Angelica Beata era in chissà quale altro mondo fatto di silenzi infiniti, di un’aerea leggerezza.
Il suo corpo non pesava più, non pesavano i suoi pensieri, non pesava la sua anima. Ma lei non lo sapeva.
Rimase in quello stato per mesi, per anni, poi il padre prese la decisione. Basta. Non nutritela più, basta, lasciatela andare. Noi qui non siamo stati capaci di accogliere un angelo. Vuole volare via , vuole andare altrove, noi non le serviamo più, nessuno e niente le serve.
Si scatenarono diatribe morali, come era successo per Eluana Englaro; si formarono schieramenti: da una parte che l’aveva conosciuta e amata , dall’altra chi solo ne aveva sentito parlare.
Come poteva la società consentire che nel terzo millennio , con tutti i progressi medici, si morisse di anoressia? Non era rivoluzionaria la decisione del padre che seguiva, a lunga distanza, quella di Angelica.
Si poteva morire per troppa bellezza? Qualcuno sentì come un disagio interiore, un malessere non localizzato e chinò il capo. Sentì la colpa.
Angelica si spense alle 19 e 23 di giovedì 24 marzo 2011. Aveva 26 anni.
Il suo funerale si tenne lontano da ogni informazione. Angelica non fu Beata sugli altari e sui calendari, ma ci fu qualcuno che filosofeggiò sullo spirito dei tempi.
Sempre dopo, sempre troppo tardi.
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