“”… “Malanova” in dialetto calabrese significa cattiva notizia, nel peggior senso della frase…è quasi una maledizione…:
Ecco da dove parte tutto:
Nella mia testa non c’è amore, c’è solo l’eco stanca delle loro maledizioni. Non mi danno pace. Come le statue di ghiaccio della prima notte. Inaridiscono i sogni. Fiaccano le mie energie.
“Malanova”.
È la parola che mi fa più male.
Per il mio paese io sono la brutta notizia, la creatura maledetta e come tutte le cattive notizie nessuno mi vuole vedere, accogliere, capire. È più facile allontanarmi. Come fossi un’untrice. Come se potessi incrinare il loro equilibrio millenario.
Odio questa parola. La odio con tutta me stessa.
“Malanova”.
È una bestemmia. È quello che loro hanno cercato di farmi sentire dal giorno della denuncia. E durante gli anni dei processi.
Io sono stata violentata due volte. La prima dal branco. La seconda da chi mi ha isolato, maledetto, minacciato, da chi mi ha fatto sentire sporca, inadeguata, sbagliata.
È la mia terra che mi ha chiamato: “Malanova”.
Battesimo di espulsione ed esclusione il mio.
“Malanova”.
Sembra il nome di una stella. Una stella che porta distruzione e pestilenze. Una stella che assorbe luce e vita, che risucchia tutto e lascia il niente.
Ci penso e comincio a tremare.
Da sola.
Immagino un punto dell’universo e la luce che viene inghiottita in una piega del cielo. Ho freddo.
Sono questo?
“Sono una Malanova?”.
Voglio togliermi di dosso questa maledizione. Questo malocchio. Questa iettatura. Voglio tornare libera.
Voglio imparare ad amarmi e a credere nelle stelle, quelle che guardi cadere, esprimendo un desiderio. E per farlo c’è un solo modo. Partire da dove chi mi maledice si ferma. Partire dalla cattiva notizia.
E così recito la formula di liberazione: “Io sono la Malanova, per chi ha abusato di me, perché non mi fermerò se non davanti alla verità. Io sono la Malanova per chi non crede nella forza delle donne. Io sono la Malanova per quelle madri e quelle mogli, che difendono i loro mariti e i loro figli, per paura, abitudine, ignoranza. Io sono la Malanova per chi nella mia terra ha paura di denunciare, di rompere il silenzio, di cambiare. Io sono la Malanova perché cerco l’amore”.
dal sito di Cristina Zagaria , giornalista di Repubblica che assieme ad Anna Maria Scarfo’ ha scritto Malanova, edito da Sperling & Kupfer ed in libreria dal 5 ottobre.
Non riesco a dimenticare le voci, le parole dello scorso febbraio…come quelle di Anna Rosa Macri’ . Parole che pesano come macigni, e anche alleggeriscono, per chi vuole condividerne materialmente il senso profondo.
“” Io lo so cosa vuol dire essere stuprata. Lo so perché sono una donna e le donne lo sanno anche se non sono state mai stuprate. Io conosco quella rabbia, quelle lacrime, quella vertigine, e il cielo che ti cade addosso e ti sprofonda con tutta la luna e le stelle; lo so perché sono una donna e a tutte le donne è capitato un giorno di essere stuprate. Io come Anna. Anna come tutte noi.
E ladri di gioia, ladri di innocenza, ladri di libertà gli uomini che la gioia, l’innocenza e la libertà la rubano a una donna. Assassini se la vittima è una bambina. Tutte le donne sono ancora un po’ bambine, e tutte le bambine sono quasi già donne, ma Anna aveva soltanto tredici anni quando ha scoperto che gli orchi non abitano dentro le favole, ma che stanno accanto a te, lungo la tua strada, o pochi passi più in là, nascosti come satiri dentro i boschi degli ulivi della Piana, maestosi come querce e misteriosi come i canti notturni dello scirocco tra le foglie.
E ne aveva quattordici, Anna, di anni, e poi quindici, e poi, e poi, quanti? fino a quando?, quando ha capito che un orco, se vuole, ti mette dentro una gabbia, di violenza e di vergogna, e ti usa quando vuole, e tu sei lì, sotto gli occhi di tutti, come un uccellino spaventato che non può volare, dentro quella gabbia, e nessuno ti vede e nessuno ti ascolta. Pure se sei lì in mezzo al paese e il paese è San Martino di Taurianova, ed è cieco e sordo come Manhattan, Quinta Strada, all’ora di punta.
Se poi sei povera, e i tuoi genitori hanno tanti problemi che non si meritano di avere anche il tuo, di problema, che fai?
Decidi di stare zitta, e allora paghi, perché il silenzio è una condanna che ti rimbomba dentro l’anima come il rimorso e ti dà gli incubi la notte.
Decidi di parlare, e allora paghi due volte, perché l’accusa diventa una colpa che ti ricade addosso, e tu che sei vittima diventi misteriosamente complice, solo perché sei una donna.
Tutte Anna come lei, noi che abbiamo taciuto. Tutte Anna come lei, noi che abbiamo avuto il coraggio di parlare e come lei siamo rimaste sole. E violentate dagli insulti, dal dileggio, dalle offese. Che è peggio che essere stuprate.
Sì, le istituzioni, come si dice, sono tempestivamente intervenute: applicato protocollo del caso, visita medica eseguita, assistente sociale stilato rapporto, sussidio a famiglia da quantificare, trasferimento in casa-famiglia auspicato. E mai eseguito, perché la burocràzia, qualche volta inciampa da sola sui timbri e le carte bollate. Altre cose da fare, altri casi da risolvere. E così sia, perché la burocràzia, si sa, è senza anima.
Ecco, l’anima. E’ proprio l’anima della gente che è mancata, in questa storia.
Perché la violenza scoppia sotto ogni cielo, come una febbre che dà gli incubi e fa smarrire la ragione. E’ del genere umano, e non c’è cura, forse. E’ trasversale, attraversa classi sociali e altitudini, climi e generazioni, lauree e parentele. E’ della natura, forse, ed è terribile. Ma è più terribile ancora quando la società intorno non sa generare gli anticorpi, di giustizia, per isolare il carnefice, e di accoglienza, per tutelare la vittima. San Martino di Taurianova è un paese piccolino, gli abitanti tanti quanti quelli che stanno in un grosso condominio o in una fetta minuscola di strada di una grande città. E adesso dicono: noi non c’entriamo, non sparate sul mucchio. Noi non sapevamo, non possiamo sapere tutto. Il nostro pedigree è di buoni cristiani. E qualche volta persino di benefattori.
Tutto vero, tutto giusto, tutto comprensibile, ma tutto drammaticamente senza anima e uno si chiede perché una piccola comunità a un certo punto l’anima l’ha persa e chi gliel’ha portata via e dove l’ha persa. In nome della solidarietà – il termine è diventato ormai una bestemmia impronunciabile – si fanno concerti, si allestiscono banchetti di arance e di azalee, si inviano sms e ci si sente tutti più buoni. Ma che cos’è che ci impedisce di vedere una ragazzina dentro una gabbia che urla senza voce sotto i nostri occhi, davanti alla porta della nostra casa, sul sagrato della chiesa dove la domenica andiamo a messa, nel parcheggio del supermercato dove andiamo a fare la spesa? E dove quasi tutto possiamo comprare meno la pietà e l’indignazione. E proprio questo vuol dire avere un’anima: provare indignazione e pietà. La pietas dei nostri padri, che era amore e non era pietismo.
San Martino di Taurianova, in questa storia, come il resto della Calabria e di un’ Italia popolata non più di cittadini o di persone, ma di un popolo-pubblico, nel senso di pubblico televisivo, incapace di indignarsi e di provare pietà, che divora come i pop corn davanti alla tivvù, anche quello che succede fuori della tivvù, come se la vita fosse tutta un volgare e pruriginoso telefilm, di cui prima o poi dovrà arrivare il lieto fine. O, forse, questa è la fine. Un pubblico pagante, anche se non lo sa, un prezzo assai caro alla sua libertà e alla sua felicità. Perché quelli di San Martino di Taurianova dovrebbero indignarsi o provare pietà davanti al caso di una ragazzina violentata, se un intero Paese né pietà ha provato, per dire, per Noemi, e neppure indignazione per il suo tragico papi, un presidente del consiglio “che frequenta minorenni, e magari fossero le sue figlie”, come ha detto una donna che lo conosce assai bene? San Martino di Taurianova come l’Italia intera che assolve cose così “ad personam”, senza neanche il fastidio del processo breve. Senza nessun processo. E non diteci che la buttiamo in politica.
Da che amo la Calabria, e questo mio Paese disperato, di un amore adulto e consapevole, ho capito che se le responsabilità di ciò che accade vanno distinte, sempre, sennò è impossibile provare indignazione e pretendere giustizia, gli effetti, anche i più disastrosi, di quelle responsabilità, mi appartengono tutti, perché volano dentro l’aria che respiro, sono diluiti dentro l’acqua che bevo, sono impastati nella farina del pane che mangio.
Non posso prenderne le distanze, è roba mia, mi tocca, mi spetta e mi aspetta. Essere manichei, i buoni di qua, i cattivi di là, è esercizio comodo, ma inutile, quando siamo tutti su una stessa barca e le onde sono minacciose.
Anna io non l’ho mai vista, sono all’estero mentre scrivo, e fin qui la sua immagine non è arrivata, e spero anzi che lei se la tenga ben cara e non si faccia stuprare un’altra volta dalle vita in diretta e dai pomeriggi sul cinque che sono lì in agguato, che abbia pietà per se stessa se gli altri non l’hanno avuta, e si indigni per le profferte delle sirene mediatiche, e pretenda, come parte del risarcimento, il diritto di essere dimenticata e a vivere la sua vita non da “ex stuprata”, ma da giovane donna piena di ferite e cicatrici, ma capace ancora di ridere e di commuoversi e di vivere.
Anna io non l’ho mai vista, ma me la carico sulle spalle, come ho fatto per i neri che sono andati via da Rosarno e per i bianchi che ci sono rimasti, per i veleni che ci sono e per quelli che forse, per le bombe che scoppiano e per quelle inesplose.
Come sanno fare le donne di Alvaro, quelle che portano i pesi, e vanno avanti stanche e leggere, e chiedo alle altre donne di questa Calabria bella e infelice come noi, a tutte quelle che sono ancora capaci di provare pietà e di indignarsi e che sono allergiche alla solidarietà via sms, di prendersela anche loro sulle spalle questa ragazza di nome Anna, e pure San Martino di Taurianova e tutta la Calabria. Insieme, il peso è più leggero. Tra qualche giorno è l’8 marzo, e noi che non ci crediamo quasi più, nell’8 marzo, vogliamo ancora crederci. Nel nome di Anna e nel nome di tutte noi che siamo Anna come lei e sappiamo cosa vuol dire essere stuprate.”"(fonte)
La manifestazione, l’incontro, non ci furono. Dov’eravamo lo scorso otto marzo noi donne calabresi?
Franca Fortunato, sempre per lo stesso giornale e sempre a febbraio, aveva scritto un appello ai colleghi giornalisti, “Sul caso di Anna Scarfò parlino anche gli uomini”
“”Nel leggere la storia di Anna Scarfò, la giovane donna di Taurianova, vittima della violenza maschile sul suo corpo e alla reazione, da lei raccontata, delle donne e uomini della comunità , ho subito pensato “per fortuna che c’è lei”, altrimenti quel lembo di Calabria sarebbe ancora tutto dominato dalla cultura patriarcale che vuole la donna violentata colpevole e i maschi, autori della violenza, semplicemente degli “uomini”.
Dico “per fortuna” perché questo vuol dire che quella cultura che trasformava la vittima in carnefice è finita anche lì, grazie a lei, e non tanto per aver denunciato i violentatori, quanto per non essersi sentita colpevole. Immagino che i parenti dei violentatori con le loro ingiurie hanno cercato di colpevolizzarla dicendole, magari, “te la sei cercata”e così spingerla, per la vergogna, a tacere . Visto che lei non si è fatta colpevolizzare , denunciando anche i suoi aggressori e spedendoli in galera, sono passati alle minacce di morte, ma ancora una volta Anna, con la forza che a una donna può venire solo dall’amore per la propria libertà, ha resistito, nonostante l’amarezza e la delusione per una comunità che non si è fatta carico di quella violenza. Ma cosa vuol dire farsi carico? Non è la stessa cosa per donne e uomini. Le donne si sono sempre fatte carico, a partire da sé, delle altre donne vittime della violenza maschile, aiutandole e sorreggendole nel difficile percorso di ricostruzione di sé e del proprio corpo violato. Le donne di quella comunità non hanno saputo o voluto fare questo, vittime anche loro di una cultura maschile patriarcale che le vuole complici dei loro uomini, figli, mariti, fratelli. Ma una donna, sicuramente, ha sostenuto Anna, sua madre di cui i giornali non hanno parlato e lei stessa, non so perché, non ne ha fatto menzione, forse perché per lei era normale che sua madre la sostenesse. Ma “normale” non è in quella cultura maschile violenta e familistica che vuole le donne sempre a difesa dei maschi della “famiglia”. Altra cosa vuol dire per gli uomini farsi carico della violenza maschile. Loro si devono fare carico della violenza maschile sul corpo delle donne perché le radici di quella violenza sta in quella cultura della virilità, condivisa da tantissimi uomini, che considera il corpo femminile un oggetto da scambiare o possedere, col denaro, col successo, col matrimonio, con una falsa concezione dell’amore o con la forza. Il fatto è che in questo paese le donne sono cambiate, Anna è cambiata, e gli uomini no, almeno la maggior parte. In questo paese, e non solo a Taurianova, c’è una misoginia violenta verso il corpo femminile, un virus che non risparmia gran parte degli uomini. Una violenza che va dalle forme più barbare dell’omicidio e dello stupro, delle percosse , alla costrizione e alla negazione della libertà negli ambiti familiari, fino alle manifestazione di disprezzo del corpo femminile ,di cui la tv ne è vera maestra. Quando si comprenderà che esiste una questione maschile che riguarda una sessualità la cui miseria è sotto gli occhi di tutti? Una sessualità violenta contro le donne lo è anche contro la natura ed è questa sessualità che sta franando ovunque, nei rapporti tra i sessi come nel rapporto con la natura, Ma il fango e i calcinacci in testa fanno male. Mi auguro che i tanti uomini, che su questo giornale prendono ripetutamente la parola su qualsiasi argomento, lo facciano, in modo chiaro, anche in questa occasione, per parlare di sé e non della vittima, riconoscendo – come hanno fatto altri prima di loro in un appello del 2006 – che la violenza maschile contro le donne li riguarda, li riguarda come uomini….”(fonte)
Anche a questo appello non è seguita nessuna risposta.
“”Lettera della madre di Anna Scarfo’.
Sono rimasta stupefatta nel leggere la lettera del cosiddetto “comitato” di san Martino di Taurianova pubblicata sul “Quotidiano” del 24 febbraio 2010 indirizzata a mia figlia Anna Maria Scarfò. Il “comitato” composto quasi esclusivamente da donne imparentate con gli aguzzini di mia figlia dimentica che le dichiarazioni di Anna Maria, in sede processuale, sono state sottoposte a una verifica rigorosa da parte dei giudici e che uno dei due processi si è concluso con sentenza di condanna passata in giudicato. Le dichiarazioni di Anna Maria, quindi, sono state sottoposte al vaglio di tre gradi di giudizio nell’ambito dei quali non è mai emerso alcun contesto “marcio” di cui solo oggi si riempiono la bocca le donne del “comitato”. Loro sanno, ma volutamente fanno finta di non sapere , che mia figlia non ha perseguito alcun vantaggio economico da questa terribile esperienza ma solo solitudine, emarginazione e sofferenza fisica e psichica. Capisco che il coraggio di Anna Maria faccia paura alle componenti del comitato di San Martino perché ha messo in discussione la regola del silenzio da parte delle donne sempre e comunque. Ho imparato, come donna, da mia figlia, piccola grande donna, che la cosa più importante nella vita di ognuna è la dignità e il coraggio di essere donna. Io e mia figlia, durante questo doloroso percorso, abbiamo incontrato tante donne coraggiose e consapevoli della centralità e dell’importanza del coraggio della donna contro ogni sopruso e violenza proveniente dal mondo maschile. Insieme a queste donne io e mia figlia abbiamo raggiunto la consapevolezza che nascere “povere” dal punto di vista economico non è un disvalore ma un punto di forza e un motivo in più per lottare e credere in quel sogno di giustizia che è diventato realtà.“”(fonte)
Nessuna deve dimenticare.
p.s. sempre a proposito di “le donne possono salvare la Calabria“, e anche il mondo.