di Mary Falco
Immagine della mostra "Donne di Venezia", per cortesia della dott.ssa Doretta Davanzo Poli.
Presso i romani contratti e testamenti si avvalevano sempre e solo delle testimonianze orali che, inutile dirlo, erano sempre più favorevoli a chi poteva mantenersi un bel gruppo di clienti. Nel “buio medioevo” invece ecco fare la sua comparsa il documento scritto, con chiaro riferimento ad una legge divina, che si pretende uguale per tutti. La città che mise questa realtà alla portata di qualsiasi utente fu proprio Venezia, fiera delle sue origini romane, che le permisero di restare “repubblica” in mezzo al mondo feudale, ma anche una città dove si doveva comprare tutto, persino l’acqua, assalita prima dell’alba da una piccola folla di ortolani, pescatori e vari prestatori d’opera, che restavano a pranzo in città (a Rialto si aprirono i primi banchi di cibo pronto della storia) e tornavano a casa prima del tramonto. Una città dunque dalla popolazione oscillante e mobile, a secondo della stagione e del tempo, in cui la proprietà era ancora confusa e frammentata, come in tutto il medioevo, con case che non avevano accesso alla strada e dovevano affittare una via d’uscita, proprietà attraversate da comodati d’uso, pozzi e forni che appartenevano ad altri e per finire la necessità improvvisa di vendere od impegnare tutto, quando una mareggiata o un attacco di pirati faceva sparire una nave in cui s’era impegnato il capitale d’una famiglia.
Una realtà che a lungo andare incide sull’equilibrio psicofisico ed ecco categorie di semiliberi, che in campagna si fanno ancora mantenere tranquillamente dal padrone, agitarsi per l’esito di una somma investita, pochi soldi che fanno ridere il mercante, ma per loro unica salvaguardia di fronte all’indigenza. Le barche sono valutate a pezzi, perché l’àncora o un remo può essere dato in pegno e tra i vari testamenti compaiono anche quelli di lavandaie, che prima d’ogni parto distribuiscono attentamente la propria biancheria personale e di casa tra le parenti, perché non sia mai che un grembiule o una camicia faticosamente tessuta e cucita finisca nelle mani sbagliate!
Montagne di pergamene graffiate dall’inchiostro da una nutrita schiatta di scrivani e notai, che conoscevano la legge e la amministravano per un pubblico sempre più vasto.
Ecco quindi che l’8 marzo di quest’anno, per la Festa della Donna, si è aperta a Venezia, nelle sale di Ca’ Pesaro, una prestigiosa mostra di documenti raccolti da Raffaele Santoro, direttore dell’Archivio di Stato cittadino da cui il materiale proviene, e Alessandra Santoro, diplomatista di quell’Università. Trenta documenti, datati tra 847 (il primo, venerabile) e la fine del Quattrocento, per illustrare il tema – che dà il titolo alla mostra – «Donne di Venezia». L’agire femminile tra antiche subordinazioni e nuove libertà.
Anonimo di scuola lombardo-veneta, la bottega del sarto - miniatura dal "Tacuinum Sanitatis" di Vienna (Vindob. Ser. n. 2644), 1385 ca. - Vienna, Biblioteca Nazionale.
Infatti a Venezia tra i clienti dei notai c’erano anche molte donne: mogli, sorelle, dogaresse o semplici lavandaie e “strazarole” con bottega a Rialto, vedove di mercanti, artigiani, marinai; hanno coscienza di sé, sanno quali sono i loro diritti e i loro doveri e sanno che lo Stato fornisce gli strumenti giuridici per tutelarle. Il motivo di questo “femminismo di fatto” è eminentemente pratico: nella città internazionale, al centro dei commerci mediterranei, la presenza degli uomini è discontinua, intervallata dai molti viaggi per mare, le donne devono prendere in mano la situazione, gestire gli interessi familiari e così facendo maturano una coscienza nuova. L’archivista Alessandra Schiavon, assieme a Chiara Scarpa, ha messo a fuoco questa realtà al femminile cercando, inseguendo e studiando tra le preziose pergamene e i documenti conservati presso l’Archivio di Stato ai Frari, fino a riunire idealmente una trentina di queste donne, straordinariamente moderne ai nostri occhi, formando un’unica grande squadra, che sembra rivivere di nuovo nella descrizione attenta dei loro beni.
Il più antico documento di questa rassegna viene da un’altra città di mare: Trieste, data 26 aprile 847 ed è il testamento Maru, che si definisce “ancilla Dei”, è malata e dispone davanti ad un notaio un lascito di 55 ceste di olive ai monaci della chiesa di S. Maria di Sesto in sylvis, perché preghino per la sua anima. Come prima testimonianza è molto pia e tradizionale, se non fosse per il finale che invoca la maledizione divina su fratello e nipoti se impugneranno il testamento!
Ma pochi anni dopo le testimonianze sono più attive ed ecco che nel 1039 i fogli di pergamena vergati a mano, ci narrano la storia di Penelda, rimasta vedova e subentrata al marito nell’attività commerciale, che ricorre al notaio per regolarizzare il noleggio un’àncora; oppure di Agnese, che il 1220 fa un prestito al figlio per i suoi commerci in mare, ma (madre amorosa, però prudente) lo vincola a restituirle l’intera somma, più i ¾ del guadagno al ritorno della missione!
«Ma quello che commuove di più sono i documenti in cui le donne ottengono giustizia per episodi che le vedono vittime di violenza – osserva Alessandra Schiavon nella conferenza stampa di presentazione – come Biancofiore (1312), che scappa di casa dopo che il marito l’ha violentemente picchiata e ha poi la forza di trascinarlo davanti al notaio perché si impegni a non picchiarla più. Oppure Francesca da Feltre, apprendista tessitrice, che accetta l’ospitalità a Venezia di un falso zio che la accoglie in casa ma poi approfitta di lei. I giudici credono alla buona fede della ragazza e condannano l’uomo a tre mesi di carcere. Siamo nel 1339. Magari il mondo oggi girasse così!»
Leggiamo i documenti e constatiamo infatti che il marito di Biancofiore è condannato a pagare una “multa” alla moglie per ogni percossa!
Il professor Cardini, nel suo articolo su “Il sole 24 ore” osserva che i documenti in mostra non hanno nulla della carta medievale riccamente miniata e «messa ad oro» che di solito s’immaginano i cultori del Medioevo in calzamaglia, ma se appena si conosce qualcosa di paleografia e di diplomatica, le due scienze-sorelle che insegnano a leggere e a interpretare le antiche carte, è uno scrigno pieno di sogni quello che esce da quelle righe d’inchiostro qua e là evanito. Per la verità i documenti sono già stati trascritti e perciò chiunque può apprezzarne il contenuto, anche senza essere un addetto ai lavori: anzi la mancanza di ornamenti rende più chiaro e corsivo il tratto!
La recensione di Cardini parte dal documento più prezioso, che racconta una nuova storia: 12 luglio del 1366 Fantina Polo, figlia del grande Marco, ch’era defunto ormai già da 42 anni e vedova di Marco Bragadin, riuscì a sbrogliare una matassa familiare vecchia di parecchi anni.
Pare infatti che dopo la spartizione dell’ingente eredità paterna con le sue due sorelle, Fantina fosse andata ad abitare col marito Marco Bragadin nella casa paterna; ma l’uomo aveva messo le mani sull’eredità della moglie. Morendo, l’aveva poi trasmessa alla sua potente famiglia, la quale non solo aveva fatto di tutto per non restituirla alla donna, ma l’aveva affidata in custodia ai Procuratori di San Marco in quanto amministratori dei beni del defunto. Ora Fantina, sostenendo che tutto quel ben di Dio apparteneva non già al Bragadin bensì a lei, si metteva coraggiosamente in causa, non solo contro la famiglia di lui, ma anche contro la magistratura dei Procuratori: nientemeno che Andrea Contarini e Niccolò Morosini, i due illustri amministratori dell’eredità bragadiniana.
“Diaula d’una mugièr”(diavolo d’una moglie, è proprio il caso d’usare quest’espressione di sapore goldoniano), questa vedova non più giovane e probabilmente ormai sola al mondo, riuscì a spuntarla. Coraggiosa lei, ma solertissimi anche i giudici della Serenissima, che non solo decretarono che di quell’eredità si dovesse recuperare tutto il possibile, ma altresì che i due nobilissimi Procuratori dovessero rifondere a Fantina anche le spese processuali, per il valore – non poi stratosferico, ma nemmeno trascurabile – di nove ducati d’oro.
La storia è raccontata da un bel documento: una pergamena del 1366 lunga più di un metro e larga 53 centimetri e mezzo che descrive drappi di seta decorati di strani animali (draghi o unicorni?) e di rose, di sacchi di rabarbaro, di «coperte tartare» [coperte tartare o indiane, famose per i loro ricami policromi, ricordati anche da Dante (Inf., XVII, 16 s.)], di tessuti dai colori cangianti, di «zendadi» finissimi (zendado, cendale e sendale grande scialle ampio e nero con lunghe frange, usato dalle veneziane fino agli albori del novecento), di gioielli tempestati di perle, di rubini e di smeraldi, di cinture d’argento, di pregiate redini da cavallo, di monete. Par proprio di vederle, queste veneziane d’altri tempi, ingioiellate come madonne, perché tra l’altro, accanto alle pietre preziose importate dall’oriente, c’era anche un’attiva produzione di falsi dalla vicina isola di Murano, per cui circolavano gioielli per tutte le borse; vestite di bisso e di seta, capaci di vogare da sole su barche leggere, che garantivano loro una libertà sconosciuta altrove!
Ma torniamo alla realtà delle cifre: il valore degli oggetti elencati, calcolato insieme con altri beni, sfiora le 4mila lire veneziane: che nella seconda metà del Trecento potevano equivalere a circa 1.081 di quelle splendide monete ch’erano i ducati di Venezia, gli «zecchini», poiché verso il 1366 un ducato equivaleva a tre lire e 14 soldi di «piccioli» (alla fine del Quattrocento si sarebbe stabilizzato a sei lire e quattro soldi; va tenuto presente che per fare una lira occorrono 20 soldi). Calcolando che un ducato pesava tre grammi e 55 d’oro purissimo, 1.081 ducati erano un po’ più di tre chili e 800 grammi d’oro, ma con un potere d’acquisto molto superiore all’attuale. Un patrimonio.
Brava Fantina, dunque!
Ed anche coraggiosi i giudici che si mettono dalla parte d’una donna sola, contro magistrati tanto famosi!
Una bella iniziativa per la festa della donna, compresa in una manifestazione più vasta: “DoVe. Donne a Venezia. Creatività Economia Felicità”, la quattro giorni di convegni, mostre, workshop, rassegne cinematografiche organizzate dall’8 all’11 marzo a Venezia.
E per una volta tanto, la conclusione non avrà nulla da invidiare all’apertura, perché sabato 31 marzo a mezzogiorno, ci sarà una visita guidata da Ottavia Piccolo!
Chi non ha ancora visto la mostra deve affrettarsi!
Per saperne di più:
http://www.comune.venezia.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/53515