30.000 lavoratrici e lavoratori da gettare in mezzo ad una strada. 30.000 dipendenti pubblici da sacrificare sull’altare del finanza, se si vogliono ricevere 8 miliardi di euro di aiuti. 30.000 persone in carne ed ossa che dovranno essere licenziate perchè la Grecia ricevera aiuti economici che nemmeno risolveranno la crisi. 30.000 persone licenziate è il nuovo prezzo che la Grecia dovrebbe pagare alla cosiddetta troika, formata da BCE, FMI e UE. Persone in carne ed ossa, donne, uomini, madri e padri di famiglia, lavoratrici e lavoratori, sono dunque considerati merce di scambio per gli affari finanziari tra governi e la toika.
La troika ci tiene al risanamento del debito greco. Ma la questione non è ovviamente leggibile in chiave filantropica:
a rischio sono le banche tedesche e francesi, tra gli investitori maggiormente esposti verso la Grecia. Elargire aiuti economici significa quindi spostare un po’ più in là il fallimento della Grecia e rastrellare il possibile. Ma lo sguardo sulla questione deve andare anche oltre. E se osserviamo le richieste di interventi strutturali, che vengono fatte da organismi finanziari internazionali ai Paesi che si trovano a subire più pesantemente la crisi, si nota l’imposizione sistematica di misure dal carattere ultraliberista. Così è stato, ad esempio, per la grave crisi economica che colpì a fine anni ottanta le cosiddette “tigri asiatiche”: Taiwan, Sud Corea, Singapore e Hong Kong, che per decenni e fino alla fine degli anni novanta, ebbero uno sviluppo economico forte ed ininterrotto. Poi la crisi e l’interruzione dei flussi di capitali verso quei Paesi del Sud-Est asiatico. Anche in quell’occasione, l’intervento del FMI si materializzò nell’imposizione di misure ultraliberiste: liberalizzazioni selvagge e interventi sulle condizioni di lavoro furono i principali obiettivi. Naomi Klein, nel suo Shock Economy, ricorda che il New York Times definì quell’operazione finanziaria condotta sulle Tigri asiatiche, «la svendita per cessata attività più grande del mondo». Non siamo di fronte a casi isolati o estremi. Sempre Naomi Klein, analizzando casi di riforme in senso ultraliberiste ad esempio in Polonia, Russia, Cile, Stati Uniti, fa notare come «messi in ginocchio dall’iperinflazione, e solitamente troppo indebitati per opporsi alle pretese che accompagnavano i prestiti stranieri, i governi accettarono un trattamento shock con la promessa che ciò li avrebbe salvati da un disastro ben peggiore.» Promesse non mantenute, come dimostrano i dati di crescita delle povertà, della disoccupazione e del disagio sociale in quei Paesi. E affinchè la shockterapia economica possa essere applicata è «necessario un qualche grosso trauma collettivo», come può essere, appunto, una grave crisi economica, perché in questi casi le popolazioni si rassegnano «a perdere cose che altrimenti avrebbero protetto con le unghie e con i denti.» Ma forse questa volta è stato commesso un errore: la troika ha atteso troppo tempo per intervenire con le sue ricette neoliberiste nei Paesi in crisi. Le popolazioni che nelle ipotesi di FMI, BCE e UE dovrebbero subire gli effetti delle cosiddette riforme strutturali hanno avuto del tempo per conoscere questa crisi economica, per rendersi conto che noi, donne e uomini in carne ed ossa siamo semmai creditori e che perciò non spetta a noi pagare questa crisi. E c’è stato il tempo anche per avanzare valide proposte di uscita dalla crisi alternative al modello neoliberista. Il prossimo 15 ottobre sarà una data fondamentale per rivendicare la necessità di un’alternativa ai modelli economici che la troika vorrebbe imporci con il ricatto ed in maniera antidemocratica.