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(prendetevi il vostro tempo ma leggetevi questa superlativa disamina del noir francese a firma di Dario PM Geraci, scrittore, saggista, gestore del sito del Giallo Mondadori nonché frequentatore di questo spazio: ne vale davvero la pena! - il pezzo è uscito per Musicajazz ed è interamente fruibile anche qui) Nel film Triplo gioco di Neil Jordan un crepuscolare Nick Nolte, al limite delle proprie risorse psicofisiche, si trascina in una storia di furti, alcool e tradimenti. La storia sa di già visto - o meglio: già letto in decine di romanzi - ma la pellicola emana un mood fumoso e disperato. È il remake di un classico del polar: Bob il giocatore.
È del tutto impossibile guardare al polar - commistione tra i termini policiére e noir - da cinici scrutatori. Non è il modo corretto di affrontare un filone. Il polar è quel sentimento, molto simile allo spleen descritto da Baudelaire, che si respira quando si ha la netta sensazione di essere in fuga da qualcosa o da qualcuno e davanti ai propri occhi non si vede nient’altro che un muro (o una bottiglia di whisky).
La galleria di volti di questo filone è irresistibile. Oltre al naso rotto e alla faccia da impunito di Jean-Paul Belmondo, esiste un altro mito, un James Dean dal ghigno diabolico e dalla mira infallibile: Alain Delon.
Pochi volti come il suo hanno lasciato una traccia indelebile nella storia del cinema: affascinante, guascone quanto basta, glaciale all’occorrenza, elegante. Se Julio Iglesias avesse pensato a qualcuno componendo Sono un pirata, sono un signore, senza dubbio l’avrebbe fatto pensando a Delon. Ma cos’è essenzialmente il polar? Si pensi alla Marsiglia dei duri, della corruzione, di quel mare nero e imperturbabile che decine di volte appare nelle pellicole del genere, i cui tratti sono stati delineati, seppur flebilmente già nel 1942 da L’assassino abita al 21 di Georges Clouzot; anche il suo Legittima difesa (1947), pur strizzando l’occhio alle produzioni statunitensi, è sicuramente un antesignano del genere. Di certo, il polar deve molto alla letteratura poliziesca statunitense ed è innegabile che molti registi appartenuti al genere si siano cibati per anni di pane e Série noire ma legare a questo dato il successo del fenomeno sarebbe oltremodo errato. Mentre nel noir, e soprattutto nell’hard-boiled statunitense, abbiamo un protagonista altamente tipizzato e di stampo cavalleresco, nel polar - che pur nasce in Francia, patria della chanson de geste - nessuno dei personaggi ha una connotazione chiara: sono individui borderline, dietro ai quali non c’è la volontà chiara di schierarsi in maniera stabile dall’una o dall’altra sponda; vengono spinti dalla corrente, dalle situazioni, sono vittime di una sorta di anomia nell’accezione teorizzata da Durkheim.
Parallelamente al cinema poliziesco, la letteratura francese ha avuto indubbiamente un forte influsso sull’approccio polar. Sebbene, infatti, sia quasi automatico legare il nome di Georges Simenon alla letteratura di genere, Albert Simonin, Auguste Le Breton e il più tardo Jean-Patrick Manchette sono le chiavi per identificare gli stilemi principali del filone. Certo, opere di Simenon come Il cargo, Passeggero clandestino o Il segretario sarebbero ascrivibili al genere ma romanzi come Grisbì, trasposto nel 1954 da Jacques Becker, o Rififi, portato sullo schermo nel 1955 da Jules Dassin, sono senza dubbio le pietre angolari che permettono la nascita dell’intero filone.
Sul finire degli anni Cinquanta la Francia è attraversata dalla Nouvelle vague, movimento sulla carta lontanissimo dal noir ma che grazie alla sensibilità dei suoi interpreti riesce a fondersi con esso alla perfezione, toccando vette altissime con film quali Bande à part (1964) di Jean Luc Godard, A doppia mandata (1959) di Claude Chabrol e, su tutti, Fino all’ultimo respiro (1960), sempre di Godard.
Il polar esce più maturo dalla parentesi della Nouvelle vague. I suoi caratteri sono ancor più sottili, certe sbavature e americanismi si sono smussati e con Delitto in pieno sole (1960) di René Clément - tratto da un romanzo di Patricia Highsmith - la crescita è tangibile. A livello attoriale certe sfumature sono curate nei minimi dettagli; i registi prestano attenzione alla scenografia come se fosse parte del cast. Alla stregua del realismo statunitense, la natura circostante abbraccia e a volte inghiotte i personaggi che la popolano. Il 1959 è senza dubbio l’anno di svolta del genere, con l’irruzione del regista che più di tutti l’ha influenzato: Jean-Pierre Melville. Scottato dall’ esordio nel lungometraggio con Il silenzio del mare (1949), film drammatico-esistenzialista, Melville propone nel ’59 una sorta di prova d’orchestra. Amante del noir statunitense, ambienta Le jene del quarto potere a Manhattan, confezionando un tipico esempio di instant movie sicuramente non al livello della sua successiva cinematografia. Subito dopo, Claude Sautet si affaccia al genere con quello che molti definiscono il suo capolavoro: Asfalto che scotta (1960).
Gli anni Sessanta sono quelli della consacrazione definitiva del genere. Il pubblico, prima restio, viene conquistato definitivamente non solo dalle trame ma anche dal fascino irresistibile degli interpreti. Lo spione (1962) vede Serge Reggiani e Jean-Paul Belmondo nelle vesti di due eroi shakespeariani, perdenti fin dal principio, disperati, senza redenzione: due emblemi del polar. L’incontro di Melville con José Giovanni – sceneggiatore, regista e profondo conoscitore del milieu - porta a Tutte le ore feriscono… l’ultima uccide (1966), stralcio di vita criminale con protagonista Lino Ventura, uno dei volti più rappresentativi del genere.
Frank Costello faccia d’angelo ovvero Le samourai (1967) ha un eccezionale Alain Delon nelle vesti di un killer tradito dal suo giro e in cerca di vendetta. Il Delon diretto da Melville segna un passaggio importante. L’attore assurgerà infatti, al pari di Belmondo, a icona del polar, partecipando alla maggior parte delle produzioni dell’epoca.
Contrariamente a ciò che avviene in Italia con Maurizio Merli, Luc Merenda e Franco Gasparri, il divismo in Francia non cannibalizza la figura dell’attore, che riesce a mantenere viva una propria indipendenza dal personaggio. Delon e Belmondo, infatti, vengono ricordati ancora come attori tout court, non come semplici interpreti di un fenomeno.
Ultimo domicilio conosciuto di José Giovanni (1970), Horror: l’assassino ha le ore contate (1968) di Boisset, L’uomo venuto dalla pioggia di Clément (1970) e Il clan dei siciliani di Henri Verneuil (1969) sono le pellicole che meritano attenzione e che riescono a elevarsi rispetto all’ormai incessante produzione di fine anni Sessanta. Meritevole di una citazione a parte, La piscina di Jacques Deray (1969), commedia erotico-noir con un Delon mattatore assoluto tra Romy Schneider e Jane Birkin.
Gli anni Settanta si aprono idealmente con uno dei film più celebri del genere, I senza nome. Delon, Yves Montand e un formidabile Gian Maria Volonté sono i protagonisti di una serrata caccia all’uomo in pieno stille melvilliano. Diverso dai lavori precedenti del regista è Notte sulla città (1972), in cui l’ormai feticcio Delon veste i panni di un malinconico commissario di polizia. È l’ultimo film di Melville, che scompare nel 1973.
Fisiognomicamente parlando, gli interpreti del polar hanno più di un tratto in comune. Se da un lato abbiamo il volto segnato e dai lineamenti vagamente tumefatti di Belmondo, dall’altro c’è un uomo bello in senso classico - Delon - che riesce, a seconda del ruolo interpretato, a celare inconfessabili segreti, passati torbidi, futuri incerti. Importantissimi poi tutti i caratteristi del filone: maschere dai lineamenti particolari, scelte curate nei minimi dettagli dai registi. A fare da contorno al tutto abbiamo la cura per il vestiario - finto trasandato, bohémien, al limite del dandy in alcuni casi – e le musiche, saggiamente bilanciate tra jazz, temi sincopati e un uso smodato di armoniche e fisarmoniche, tipiche di alcune ambientazioni del luogo.
La morte di Melville non chiude il filone: anzi, una grandinata di titoli è pronta a sgomitare per un posto nell’olimpo del cinema. L’uomo venuto da Chicago (1970), Il cadavere del mio nemico (1976) e Il fascino del delitto (1979, da un romanzo di Jim Thompson) incorniciano gli anni Settanta, periodo nel quale il polar risente fortemente dei fermenti politici contemporanei e la commistione dei generi (poliziesco e politico) la fa da padrona. Tra le pellicole da ricordare anche Borsalino (1970) che vede spalla a spalla i due giganti Delon e Belmondo, Flic Story (1975) e Due contro la città (1973) con il duo Delon-Gabin.
Di pellicola in pellicola si arriva agli anni Ottanta, periodo di magra per il cinema di genere; particolarmente in Italia, dove le televisioni private affossano i pochi artigiani rimasti in attività, ma anche negli Stati Uniti, dove tra alti e bassi il noir non sa più offrire pellicole brillanti come nell’epoca d’oro.
La Francia continua malgrado tutto a conservare uno standard di buona qualità, pescando a piene mani dalla scuola del noir statunitense. Nel 1981 escono Guardato a vista, Per la pelle di un poliziotto e Colpo di spugna (dal romanzo Pop. 1280 di Jim Thompson); nel 1983 Lo specchio del desiderio (da un libro di David Goodis) ha per protagonista Gerard Depardieu, nuovo volto (spigoloso e burbero) del polar dopo Codice d’onore di Alain Corneau (1981), dove si muoveva agilmente accompagnato da Montand e da Catherine Deneuve, la dark lady del filone (con la quale appare nello stesso anno anche nella Signora della porta accanto di Truffaut).
Al termine degli anni Ottanta sembra finire anche il fenomeno del polar: il pubblico non è più attratto come un tempo e i grandi maestri sono concentrati su altri generi. Pian piano tutti abbandonano la nave che affonda; e pellicole come Il buio nella mente (1995) non bastano a ravvivare l’interesse ormai sopito. Ma, a seguito di un lunghissimo periodo di silenzio durato più di vent’anni, un ex commissario di polizia, Olivier Marchal, dopo aver esordito due anni prima con la pellicola Gangsters regala nel 2004 un noir di rara bellezza, 36, interpretato dall’indomito Depardieu e da Daniel Auteil, e capace di rinvigorire un genere dato ormai per morto, mescolando sapientemente la lezione del cinema d’azione statunitense con la tradizione polar. Il risultato è di grande fascino e rilancia il filone in Francia e all’estero.
In Asia, registi come Johnnie To riscoprono antiche passioni e rielaborano il cinema dei grandi del passato: Vendicami (2009), con Johnny Hallyday, ne è un esempio; in Europa, sulla scia del successo ottenuto da Marchal (che replicherà con L’ultima missione nel 2008), altri registi firmano piccoli capolavori come il belga Truands (2007) o L’immortale (2010) di Richard Berry.
Il caso Truffaut
François Truffaut - genio assoluto della regia, scrittore di prim’ordine e profondo conoscitore del cinema statunitense e soprattutto di quello di Alfred Hitchcock - è un raro caso di equivoco critico. Benché lo si tenda a definire un autore con la A maiuscola, e qualunque critico si ribelli al solo pensiero di definirlo regista di genere, occorre riflettere brevemente ma oggettivamente sulla sua filmografia. Osservando il filone del polar nella sua interezza è infatti impossibile non inserirvi un numero cospicuo di sue pellicole. Prendiamo Tirate sul pianista del 1960 (tratto dal romanzo Sparate sul pianista di David Goodis) o Finalmente domenica dell’83 (dal romanzo omonimo di Charles Williams) o ancora La sposa in nero del 1968 e La mia droga si chiama Julie del 1969 (entrambi da libri di Cornell Woolrich).
Come pochi altri, Truffaut ha saputo reinterpretare, senza stravolgerne l’essenza originale, non tanto le storie narrate dagli autori ma il loro stato d’animo e la loro malinconia. Diceva: «Ogni volta che mi sono avvicinato a uno scrittore di noir sono rimasto colpito dalla sua modestia e professionalità ma anche dalla sua tristezza». La tristezza, per l’appunto, la malinconia della vita, la solitudine più profonda e struggente, quella che preferiamo vedere sullo schermo dimenticandoci che spesso ci è seduta accanto. A differenza di altri cineasti dichiaratamente appartenenti al filone, Truffaut ha sempre posto la tristezza in primo piano, lasciando la vicenda ai margini.
Una glorificazione della sconfitta, una personificazione dell’estraneità.
Questa è l’essenza del noir.
Dario PM Geraci
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