Le presidenti Soroptimist di Verona e Mantova salutano i partecipanti
28 MAGGIO – Si è svolto questa settimana, presso il Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università degli Studi di Verona un interessante convegno dal titolo Donne in Magistratura. L’incontro è stato organizzato dai docenti di storia del diritto Giovanni Rossi e Cecilia Pedrazza Gorlero con la presenza della direttrice di Dipartimento Donata Gottardi, il patrocinio dell’amministrazione comunale, dell’associazione Soroptimist International -gruppi di Verona e di Mantova, rappresentati da Renata Casarin Mantovanelli e Margherita Frigo Sorbini- e la partecipazione di Anna Maria Isastia e Carla Marina Lendaro.
I relatori, da sinistra: Giovanni Rossi, Cecilia Pedrazza Gorlero, Anna Maria Isastia, Carla Marina Lendaro e Donata Gottardi
In apertura, Cecilia Pedrazza Gorlero ha evidenziato come manchi, nel vocabolario odierno, il termine “magistrata”. Non appena si digita la parola al computer, il correttore ortografico la segnala come scorretta, inesistente o la considera appartenere a una lingua straniera. Eppure, specifica la docente «il nome segue la cosa e la rende vera. Dove il nome non c’è manca l’essenza stessa della cosa. Iniziare dal nome è quindi un buon passo». Il processo di inveramento ed attuazione della Costituzione è cominciato dall’attacco agli impianti anti-egualitari, quindi dalle prime, timide mosse volte a conquistare la parità di genere tra uomini e donne. La battaglia è stata fin da subito assai insidiosa perché talvolta le stesse donne che hanno fatto carriera nei vari ambiti professionali, omologandosi ai colleghi maschi, hanno ostacolato le altre donne che volevano invece cambiare la mentalità comune. Ancora oggi vi sono donne che rinunciano a governare, pensando di non poterlo fare tanto bene quanto un uomo. «Eppure –continua la relatrice- il potere non ha genere, cerca solo un interprete capace, maschio o femmina che sia. La pretesa delle donne su loro stesse è elevatissima, affermano che la rappresentanza politica si deve meritare e pensano che per fare ciò si debba essere brave in assoluto, ma la comune esperienza dimostra che la politica non funziona necessariamente su basi meritocratiche (…) Le quote rosa, per certi versi, hanno scandalizzato il mondo femminile quasi più di quello maschile ma la consistenza numerica conta molto anche in politica, servono donne per tutelare i diritti delle donne». Se l’affermazione delle donne in politica è oggi difficile, tanto più lo è stata la loro ascesa nel mondo della magistratura. La donna magistrata è sempre stata vista come uno strano individuo, a metà tra l’essere un uomo in gonnella o una donna sotto mentite spoglie. Ne è spesso stata negata, alla radice, la femminilità e quindi anche la possibilità di conciliare la carriera professionale con la famiglia, in particolare con il desiderio di maternità.
«Una donna può ambire oggi ai massimi gradi dell’istruzione, senza avere tuttavia ambizioni di azione politica o professionale –conclude la docente-. Eppure, le donne possono e debbono sostituire gli uomini in certi ruoli (…) Il Soroptimist destina molte delle sue energie alla prevenzione del femminicidio, che quasi sempre attiene alla sfera personale e familiare della donna che ne è vittima. Purtroppo le vittime sono spesso, ancora oggi, colpevolizzate perché le si reputa istigatrici del comportamento di un uomo che fino all’ultimo tutti hanno sempre creduto essere una persona normale. Come possiamo, però, ammettere l’esistenza di uomini che si trasformano in mostri e che usano violenza sulle donne?». Ovviamente è inaccettabile.
Figura femminile in un affresco a Pompei
A seguire, Giovanni Rossi ha evidenziato come l’idea di una donna naturalmente inferiore all’uomo abbia accompagnato lo sviluppo della società occidentale, e non solo, per millenni. Scardinare i luoghi comuni è tanto più difficile quanto più a lungo si permette al pregiudizio di genere di sedimentarsi nella mentalità collettiva. Eppure, conferma Rossi «Quando ero studente all’Università degli Studi di Firenze, la popolazione studentesca era costituita per la metà da maschi e per l’altra metà da ragazze. Oggi invece la presenza delle donne nelle facoltà di Giurisprudenza è sensibilmente aumentata e questo produrrà un’onda rosa nelle professioni forensi». C’è da chiedersi se i tempi siano davvero maturi per questi cambiamenti, dato che le discriminazioni contro le donne sono antichissime e restano spesso latenti, ma comunque vive. Il caposaldo della discriminazione della donna dai pubblici uffici si rinviene, sotto il profilo storico, in un frammento di Ulpiano contenuto nel Digesto. Questo passo evidenzia appunto la naturale inferiorità della donna rispetto all’uomo, l’intrinseca debolezza della quale parlava anche lo stesso Cicerone. Tuttavia non si può certo dire che Ulpiano sia stato particolarmente originale nell’affermare l’inadeguatezza delle donne al di fuori delle faccende domestiche. La fonte di ispirazione indiscussa a questo riguardo è Aristotele, che teorizzò l’inferiorità non solo fisica, ma anche psichica dell’universo femminile.
Elena Cornaro Piscopia
«Le donne –specifica Rossi- vengono considerate dagli Antichi come esseri volubili, soggetti alle proprie passioni. La loro unica funzione è quella di procreare ma, si badi bene, esaurito questo compito esse si occupano solo di allevare e non anche di istruire la prole. Secondo Aristotele sarebbe tragico che la donna assumesse ruoli di comando perché non le viene riconosciuta alcuna autonomia, deve restare confinata tra le mura domestiche». L’opinione di Aristotele influenza quasi all’unanimità tutti i pensatori, i retori, i giuristi, gli scrittori successivi. È significativo notare anche come San Tommaso D’Aquino nella Summa Theologica consideri la donna quale maschio fallito, essendo l’uomo l’essere perfetto cui tende la natura. Più in là nei secoli fece scandalo il caso della veneta Elena Cornaro Piscopia. Nella seconda metà del Seicento la giovane chiedeva di potersi laureare in teologia, ambito da sempre destinato ai soli uomini. Alla fine ci si decise di ammetterla a discutere una tesi in filosofia presso l’Università degli Studi di Padova e fu così che Elena divenne la prima donna laureata al mondo.
manifestazione a favore dell’emancipazione della donna
Se le posizioni degli Antichi riguardo alle donne possono far ridere, si sorride un po’ meno quando si scopre che anche in epoca contemporanea i diritti sono declinati sempre e solo al maschile. L’art. 24 dello Statuto Albertino afferma l’eguaglianza formale di tutti nei diritti civili e politici. La disparità, tuttavia, è celata nell’ultimo paragrafo «salve le eccezioni determinate dalle leggi». Ovviamente l’eccezione principale è data dalle donne. Lo Statuto risale al 1848 ed è rimasto in vigore per quasi cento anni, influenzando tutte le leggi dell’allora Regno d’Italia. Come esso, anche il più risalente Code Napoléon del 1804 afferma la parità formale nei diritti ma non prende in minima considerazione l’eguaglianza tra uomini e donne. L’art. 213 del Code Civil ribadisce che il marito è in dovere di proteggere la moglie, mentre la moglie è in dovere di ubbidire al marito. In poche righe si concentra così il senso della tutela maritale, elemento essenziale di una società gerarchicamente ordinata nella quale il ruolo di capofamiglia deve essere rivestito da un uomo. Per compiere qualsiasi atto di amministrazione, a maggior ragione se si tratta di straordinaria amministrazione dei beni familiari, la moglie deve essere autorizzata dal marito. Con il matrimonio, inoltre, l’amministrazione dei beni dotali passa a quest’ultimo che può disporne pur senza il consenso della donna. La legge italiana del 17 luglio 1919 sulla capacità giuridica della donna non si discosta granché dal pensiero dominante. L’art. 7 sottolinea infatti che «Le donne sono ammesse, al pari degli uomini, ad esercitare tutte le professioni e a coprire tutti gli impieghi pubblici esclusi soltanto (…) quelli che implicano poteri pubblici giurisdizionali o l’esercizio di diritti e di potestà politiche, o che attengono alla difesa militare dello Stato (…)». Così discorrendo si giunge alla riforma del 1975 che, dopo secoli di dure lotte per l’eguaglianza, cerca di eliminare anche le disparità sostanziali in un ambito delicatissimo del diritto, ossia il diritto di famiglia.
Lidia Poet in una foto d’epoca
Per quanto riguarda la carriera delle donne nelle professioni forensi, non mancarono casi di evidente discriminazione, ricordati da Anna Maria Isastia nel suo libro Donne in Magistratura. Nel novembre del 1883, la Corte d’Appello di Torino annullò l’iscrizione all’Albo degli Avvocati di Lidia Poët citando l’imbecillitas sexus di ulpianea memoria. Ma il caso di Lidia non fu il solo. Nel 1912 Teresa Labriola, già docente a Roma, chiese di essere iscritta all’Albo forense della capitale ma venne respinta solo perché donna. Stessa sorte toccò, sempre a Roma, ad Adelina Pertici che ambiva alla pratica notarile e, questa volta a Milano, a Paolina Tarugi che voleva diventare avvocato. A Bologna fu la volta di Laura Emma Rossi. Unico a stagliarsi in difesa delle donne nella professione era stato nel 1884, ovviamente senza successo, il deputato Agostino Bertani che aveva chiesto al Parlamento di ammetterle nell’avvocatura e di eliminare l’autorizzazione maritale.
In conclusione, Rossi afferma che «Gli uomini scalzati da un millenario piedistallo hanno difficoltà a riposizionarsi, per questo reagiscono con violenza verso le donne che rivendicano una certa autonomia. Per secoli la violenza domestica verso mogli e figli è stata intesa come ius corrigendi, quindi lecita. Era diritto dell’uomo picchiare la moglie e i figli disubbidienti. Le sevizie erano raramente riconosciute».
Copertina del libro di Anna Maria Isastia
Anna Maria Isastia, docente presso l’Università La Sapienza di Roma e presidente nazionale della Soroptimist International ha subito evidenziato come, a convegni come questo, raramente partecipino molti uomini. Talvolta li si costringe a partecipare mettendo in scaletta l’incontro nell’ambito delle varie iniziative di formazione professionale, e badando bene che la discussione sia preceduta e seguita da argomenti di interesse comune.
Svolgimento del dibattito
Per secoli le donne si sono scontrate con pregiudizi profondi, insisti anche nelle menti maschili considerate le più brillanti. Si legge ancora nel libro Donne in Magistratura: «Il procuratore generale Vincenzo Calenda di Tavani (…) sostenne che nelle donne il sentimento è più sviluppato del pensiero e l’immaginazione supera il raziocinio; che le donne sono adatte a dare conforto e non a battagliare con la toga. Auguro all’Italia che non abbia a sentir mai il bisogno né delle donne soldate né delle donne avvocate» E ancora: «Le donne facevano le maestre nelle scuole elementari e se insegnavano nelle scuole medie dovevano farlo nella classi femminili; potevano svolgere attività di scarso prestigio sociale e di modesta retribuzione, ma gli impieghi pubblici qualificati erano loro negati. Nel 1910 il Consiglio di Stato raccomandò di assumere donne solo per impieghi di basso profilo».
Fu così che, anche quando il mondo accademico si aprì alle donne tra l’Ottocento ed il Novecento, fu sempre impossibile per loro applicare gli studi compiuti nella carriere tradizionali dell’avvocatura, della magistratura o del notariato. Nel 1921 per fare il magistrato bisognava essere uomo ed avere la tessera del partito fascista. In Assemblea Costituente, poi, restano celebri le posizioni di Oscar Luigi Scalfaro e Giovanni Leone contro le donne. Unica voce fuori da coro fu quella di Nicola Salerno: «Quando si può sbarrare la strada ad una donna lo si fa ben volentieri perché abbiamo ancora troppi pregiudizi».
Maria Gabriella Luccioli, una delle prime 8 donne magistrato
Nel 1956, tuttavia, le donne ottennero una prima conquista poiché furono ammesse a svolgere le funzioni di giudice onorario. Un piccolo varco si era aperto nell’irto cammino verso la professione. Nel 1960 si riconobbe che l’esclusione delle donne dalla Magistratura era del tutto contraria ai principi fondamentali della Costituzione, ma per ben tre anni il nostro Parlamento rimase immobile sulle sue posizioni, temendo le conseguenze dell’ammissione delle donne alla carriera professionale. «Dobbiamo attendere il 1965 –continua la docente- per vedere accedere alla Magistratura le prime donne, che si trovano a fare i conti con un mondo molto ostile. La prima donna in assoluto fu Maria Gabriella Luccioli che si scontrò da subito con una pessima atmosfera. Le magistrate erano malviste sia dai colleghi maschi che dalla polizia giudiziaria e, per limitare i danni della loro entrata nelle aule di giustizia, si decise di destinarle ai soli Tribunali per i Minorenni. Eppure spesso queste donne, espletando le loro funzioni pubbliche, si sentivano uomini e parlavano come tra pari». Bisognerà attendere ancora gli anni Settanta e Sessanta per vedere i frutti del cambiamento, sulla spinta delle battaglie combattute oltreoceano dalle magistrate americane. «Si arriva così ai primi anni Novanta. Nel 1991, la legge 125 sulle azioni positive sembra discriminare gli uomini a favore delle donne e nasce il comitato di studio del CSM per attuare, in senso sostanziale, la parità di genere tra donne e uomini anche in Magistratura. Avvalendosi di studi statistici si scopre che le donne sono escluse da tutti i direttivi, oltre che dai corsi che permettono di acquisire il punteggio necessario per fare carriera. Viene in evidenza anche come il CSM abbia sempre rifiutato di considerare la maternità come una situazione particolare, così che una magistrata con figlio piccolo può essere assegnata a sedi distrettuali anche molto lontane, con evidenti problemi di gestione del lavoro e della famiglia». In questo quadro generale, tuttavia, gioca un ruolo fondamentale anche l’atteggiamento delle stesse magistrate, che non vogliono essere viste diversamente dai colleghi maschi. In conclusione, afferma Isastia: «Le donne magistrato hanno cambiato il volto del diritto in Italia, dimostrando come esso non sia neutro ma venga applicato concretamente dalle persone. Si sono dimostrate molto attente ad argomenti rispetto ai quali i colleghi maschi non erano altrettanto sensibili, ad esempio in tema di processi per stupro».
A seguire, Donata Gottardi è intervenuta affrontando l’argomento della parità di genere e delle pari opportunità dal punto di vista dei giuslavoristi. «I giulavoristi hanno a lungo trattato il tema della discriminazione –ha sottolineato- ed il diritto del lavoro nasce infatti per riequilibrare le posizioni diseguali. Le regole anti-discriminatorie hanno poi investito la stessa Costituzione, soprattutto l’art. 51, il diritto dell’Unione Europea ed il diritto societario, introducendo le quote di genere anche nei Consigli di Amministrazione delle società quotate. Ciò che colpisce è che questi temi sono trattati tendenzialmente da un nucleo limitato di donne, studiose piuttosto gelose del loro ramo di competenza, e che si tratta di argomenti nei quali le ombre sono davvero molte. Si assiste tuttavia a grandi cambiamenti, la situazione sta davvero mutando. Il cuore degli interventi riguarda la parità di trattamento e dal divieto di discriminazione». Sotto questo profilo un anno significativo è stato il 2012, che ha visto la riscrittura dell’articolo tabù in tema di licenziamenti, ossia l’art.18 dello Statuto dei Lavoratori. Si è previsto che la tutela forte sia limitata ai soli casi di licenziamento discriminatorio, dovuto non solo al genere ma anche, ad esempio, a fattori quali l’età, la disabilità, la religione o l’orientamento sessuale. «In questi casi –specifica la docente- il giudice applica l’art.18 così come esso era fino al 2012. Segno questo, che il diritto del lavoro si sta evolvendo ponendo al centro dell’attenzione la tutela anti-discriminatoria come la più forte esistente».Le donne dell’Assemblea Costituente in un giornale d’epoca
I maggiori problemi sono però legati ai casi di discriminazione indiretta, più difficili da provare perché legati ad atti apparentemente neutri che comportano tuttavia ricadute diverse. Da parte della Cassazione civile si sono avute appena 16 decisioni al riguardo. Proprio per questo Donata Gottardi afferma che «occorre scoperchiare la neutralità e smascherarla. La sfida di oggi è proprio quella di scoprire nuove discriminazioni, portandole alla luce ma rifuggendo al contempo il rischio di creare discriminazioni alla rovescia». Basta osservare le decisioni della Corte di Giustizia europea per rendersi conto che la maggior parte di queste sono attivate da uomini, sono rari i casi in cui la Corte si attiva in base ad un ricorso proposto da una donna. Prima tra tutte; la decisione Kalanke del 1995 per l’assegnazione del posto di capo giardiniere a Brema. Si sottopose alla Corte la questione riguardante l’interpretazione dell’art. 2 della Direttiva 76/207/CEE, chiedendo se a parità di qualificazione dovesse essere sempre e comunque scelta, in quei settori lavorativi nei quali le donne sono “sottorappresentate”, la candidata di sesso femminile. La risposta fu negativa in quanto la disposizione di cui all’articolo 2 della direttiva stessa, al suo quarto comma, «è limitata ad interventi mirati ad eliminare o ridurre le disparità di fatto che possono esistere nella realtà della vita sociale, non legittimando clausole di preferenza assoluta ed incondizionata alle donne». In questo senso l’Avvocato generale Tesauro, nel formulare le sue conclusioni, aveva correttamente inquadrato le azioni positive antidiscriminatorie come uno strumento volto a perseguire l’égalitè des chanches di gruppi svantaggiati, traducendosi in un trattamento preferenziale.
Ha partecipato al dibattito anche Carla Marina Lendaro, dell’Associazione Donne Magistrato Italiane, portando il saluto della presidente della Corte d’Appello di Brescia Graziana Campanato e la sua personale esperienza. Lendaro, Campanato e come loro molte altre colleghe sono la prova vivente di quanto limitata fosse la visione di alcuni uomini, esponenti del mondo politico ed accademico, che per secoli negarono dignità alla donna sul piano professionale e morale. Resta celebre uno scritto di Eutimio Rannelletti, presidente onorario della Corte di Cassazione, che nel 1957 pubblicò un pamphlet dal titolo La donna giudice, ovvero la grazia contro la giustizia. Qui si legge si legge che la donna «…è fatua, è leggera, è superficiale, emotiva, passionale, impulsiva, testardetta anzichenò, approssimativa sempre, negata quasi sempre alla logica e quindi inadatta a valutare obiettivamente, serenamente, saggiamente, nella loro giusta portata, i delitti e I deliquenti». È quindi comprensibile che le prime donne magistrato abbiano dovuto scalare una montagna di difficoltà sia umane che lavorative per affermarsi professionalmente, dimostrando di valere tanto quanto i colleghi maschi. Le prime otto donne che vinsero il concorso di magistrato bandito nel 1963 furono Letizia De Martino, Ada Lepore, Maria Gabriella Luccioli, Graziana Calcagno Pini, Raffaella D’Antonio, Annunziata Izzo, Giulia De Marco, Emilia Cappelli. Entrarono in servizio nel 1965 e di queste solo Luccioli è ancora in servizio. Attualmente riveste la carica di Presidente della prima sezione civile della Corte di Cassazione.
Graziana Campanato
Graziana Campanato, oggi presidente della Corte d’Appello di Brescia, è entrata in magistratura nel 1967 ed è famosa per aver condotto molti processi importanti, come quello con 110 imputati relativo alla Mala del Brenta ed il processo contro i Serenissimi che scalarono il campanile di San Marco. «La donna, nei cui confronti si era nutrito tanto pregiudizio sino a negarle il diritto di far parte della magistratura –scrive Campanato- ha dato buona prova di sé e, nonostante abbia raggiunto incarichi importanti in misura inferiore al collega maschio per tante ragioni che sono emerse più volte, (…) ha dimostrato di essere in grado di affrontare ogni tipo di ruoli e di saper affrontare il lavoro con pari efficienza del collega maschio, pur essendo ancora maggiormente gravata del ruolo domestico (…) Per il futuro certamente si profila la necessità che la donna giudice si ponga in modo più convinto nell’assunzione di incarichi e ruoli attinenti alla giurisdizione e agli aspetti collaterali della sua professione, se vorrà che il significato della sua presenza non si limiti alla dimensione numerica, ma debba incidere in modo determinante sull’amministrazione della giustizia».
In conclusione, il giudice Lendaro ha sottolineato come le differenze tra uomini e donne magistrato esistano ancora, ma non siano uno scoglio insormontabile alla conquista della professione. «Le limitazioni verso le donne vengono a galla quando si comincia ad avere famiglia –afferma-. I ruoli direttivi, professionali e associativi sono più difficili da seguire quando si hanno dei figli. Tuttavia, ad oggi le donne rappresentano il 48% di tutta la magistratura ed è miope per gli uomini negare le quote rosa… Potrebbero un giorno avere bisogno delle quote azzurre!».
Silvia Dal Maso
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