Il corpo di una donna non è merce, oggetto puramente carnale da gettare al macello di uomini meschini e fomentatori di violenza. L'esposizione di angoli sempre maggiori di pelle è vissuta come un ricatto sociale, il prezzo da pagare per essere accettate e considerate. Di rilievo, a riguardo, il documentario "Il corpo delle donne" a cura di Lorella Zanardo, esplicito nel mostrare una sequenza - nemmeno poi così difficile da trovare nella realtà, già montata in diretta - di giovani donne svestite, ammiccanti ed ambigue che riempiono i palinsesti televisivi, a tutte le ore del giorno e della notte. Culetti scoperti, tettine strizzate in reggiseni minuscoli, cosce di fuori. Il modello proposto non parla e non pensa. Agisce, usando il corpo come veicolo di successo, scorciatoia - o unica possibilità? - per abitare il mondo dello spettacolo. La carrellata di immagini tanto simili, quanto noiose, che la televisione italiana propone oggi porterebbe a pensare che il male - quello maggiore - viva e si nutra tra i cristalli liquidi di un soprammobile animato. Dai cartelloni pubblicitari piovono sederi, seni, sguardi e gesti con evidente sfondo sessuale. Ai bambini bisognerebbe coprire gli occhi, passeggiando lungo le strade di un qualsiasi centro cittadino, rischiando di non farglielo mai vedere, quel centro. Le donne - quelle normali, che vivono e lavorano fuori dallo show business - sono però diverse dagli stereotipi imposti dalle copertine patinate. Non si aggirano per la città seminude, con le labbra turgide di silicone e le scollature ombelicali. Sono madri, figlie, nonne e fidanzate che non cedono al richiamo suadente - eppure illusorio - del mondo artificiale della televisione. Mi è capitato di leggere, in questi giorni, molte opinioni contrastanti riguardo alla mercificazione del corpo femminile. Tra queste, una in particolare mi ha colpito, secondo la quale le giovani donne - spesso appena maggiorenni o giù di lì - accetterebbero di esporre al pubblico ludibrio il proprio corpo perché costrette da condizioni economiche. In altre parole, sempre secondo l'opinione anomina in oggetto, in cambio di una ragionevole quantità di denaro. Mi sfugge, però, la componente di "costrizione" nel discorso. Se vuoi apparire in tivù devi farlo alle mie condizioni, detta l'immaginario padrone, svestita, sculettante e sorridente. Io posso appenderti ad un filo in mezzo ai prosciutti, farti sdraiare sul bordo di una piscina, metterti in ginocchio sotto un tavolo o farti leccare una fragola in diretta. Tu, donna, esegui e sorridi, in quanto pagata per questo. Desolante come prospettiva. Reale, forse, o verosimile. Poi, però, viene da chiedersi perchè le donne accettino tali condizioni senza fiatare. Non esiste il sindacato delle veline, vallette, letterine e professoresse tv? E se esiste, perchè tace? La donna che accetta le regole del gioco in cambio di denaro non ha particolari giustificazioni. La mercificazione che del suo corpo se ne fa è opera solo del maschio dominante (impresario con lenti a specchio, pantaloni attillati e brillantina) o anche delle ragazze che si mettono in fila senza troppi scrupoli per accapparrarsi un posto al sole nel panorama televisivo? Se il rispetto non nasce da dentro, dall'animo stesso della donna, è poco probabile trovarlo fuori. Quando una donna decide di sottostare alle regole, in silenzio, senza opporre resistenza alcuna (preferendo al rispetto il denaro), è scorretto farne una vittima sacrificale. Come cambiare la situazione? Smettendo di seguire programmi "indecenti", cambiando canale quando la valletta muta di turno irrompe sulla scena con un risolino scomposto e inutile. E, soprattutto, insegnando alle bambine di oggi, donne di domani, che nessuno ha il diritto di calpestare la loro dignità. Se, però, il lavoro educativo si perde per strada, se le madri sono le prime ad iscrivere le figlie ai vari concorsi di bellezza, sgomitando per passare avanti, non lamentiamoci poi che la televisione è tutta tette e culi. Ci vuole il coraggio di cambiarle le cose, rinunciando ai privilegi, battagliando unite per una giusta e comune causa. Additare un uomo su mille per le parole fuori luogo, o per inquadrature assurde, non basta! Perchè la donna sia forte e torni ad avere un peso nella società, deve mettere da parte le ipocrisie e puntare tutto sulla determinazione. Con coerenza. Perchè non si può scendere in piazza per difendere il diritto alla vita di Sakineh, e poi mettersi addosso un burqa per solidarizzare con una madre magrebina che porta il figlio a scuola. Il buon senso è la vera chiave di svolta femminile. Ce lo ha dimostrato la mamma magrebina di Latina, disposta a scoprire il volto (rinunciando temporaneamente al velo integrale) per integrarsi a pieno nella comunità che la ospita. Troppo facile mettersi il burqa per cinque minuti, davanti a fotografi e giornalisti, dimostrando un'ipocrita solidarietà. Le donne italiane che hanno compiuto quel gesto, distensivo ma vuoto, dovrebbero interrogarsi su cosa significa per una donna coprirsi il volto, sempre, per tutta la vita, prima di mettere in scena una comprensione che sa tanto di leggera manchevolezza. Possibile che oggi la donna non riesca ad imporsi senza dover necessariamente rinunciare alla propria dignità - negata dalla mercificazione carnale, o celata dietro una cascata di stoffa?(Immagine 2, fonte Corriere della sera) Barbara Greggio