Dopo 16 mesi di lotta, lo stallo siriano

Creato il 15 luglio 2012 da Geopoliticarivista @GeopoliticaR

Dopo sedici mesi di conflitto iniziato nel febbraio 2011, la situazione, nel Bilâd ash-Shâm non tende a migliorare nonostante i vari tentativi da parte della Comunità Internazionale, e con il passare del tempo quelle che inizialmente erano manifestazioni di protesta contro il regime per la “libertà”, la disoccupazione, la fame, la corruzione, la povertà, si sono trasformate in violenze e scontri a fuoco tra l’esercito e gli attivisti, diffondendosi in tutto il territorio siriano, e talvolta anche oltre i confini1.

Le riforme realizzate dal presidente Bashâr al-Asad non hanno placato l’ira dei rivoluzionari che vorrebbero la caduta del “dittatore” ottenendo cosi la libertà e la democrazia; nonostante ciò l’opposizione non offre una valida alternativa, poiché la grande varietà di gruppi politici, di dissidenti in esilio, di attivisti di base e militanti armati tuttora non è riuscita a mettersi d’accordo per trovare una valida alternativa all’attuale presidente: il Consiglio Nazionale Siriano (CNS), l’Esercito Libero Siriano, il Comitato di Coordinamento Nazionale, il Gruppo Patriottico Siriano sono stati riconosciuti internazionalmente ma nonostante abbiano provato a creare delle coalizioni per unificare i sostenitori dell’opposizione non riescono a trovare una soluzione. Non avendo una visione omogenea e un leader forte, l’opposizione non riesce ad ottenere nemmeno l’appoggio internazionale per far cadere il regime.

Queste rivolte nascono dieci anni dopo l’inaugurazione di “programmi di sviluppo neoliberali” attuati attraverso grandi finanziamenti volti allo sviluppo di città come Aleppo e Damasco: nonostante tutti i problemi, secondo un recente report congiunto di ambasciate e consolati sull’analisi socio-economica e del mercato turistico, la Siria ha visto una chiara crescita2.

Il quadro regionale e internazionale è molto complesso ed esiste il rischio che il tentativo di rivoluzione si converta in una guerra civile di lunga durata, o cosa ancora peggiore, in un nuovo Iraq. In Siria, come in tutti i paesi interessati dalla “primavera araba”, si gioca una partita tra fazioni opposte con visioni differenti rispetto alle alleanze internazionali, e per questo interventi diretti armati come avvenuto in Libia sono molto difficili da portare a termine.

La popolazione siriana è composta da un 70% sunnita e restante 30% sciita, dentro la quale si trovano gli alawiti, che occupano gran parte dell’esercito e dei servizi segreti. Le due correnti islamiche trovano appoggio in potenze regionali all’interno dell’area vicino-orientale:o la Turchia e i paesi del Golfo appoggiano i sunniti politicamente e finanziariamente, dall’altra parte Hezbollah e l’Iran sostengono gli sciiti.

Questo territorio costituisce perciò un elemento fondamentale nello sviluppo degli avvenimenti presenti e futuri in tutta l’area vicino-orientale e anche a livello internazionale. E, con il passare dei giorni, il rischio che la Siria si trasformi nel nuovo Iraq è sempre più concreto. La confusione che si è creata negli ultimi mesi non fa sperare in qualcosa di buono, e ogni giorno arrivano notizie sempre più preoccupanti.

La Lega Araba ha provato a gestire la situazione inviando i suoi osservatori sul territorio siriano, ma con il conseguente fallimento della missione per la disorganizzazione trascritta anche nel report3. Nemmeno le Nazioni Unite con l’appoggio delle potenze mondiali sono riuscite a mettere un freno all’escalation di violenze con sanzioni pesanti inflitte al governo siriano e ai suoi uomini. I passi compiuti dal governo, come il referendum costituzionale4 che dovrebbe aver aperto al multipartitismo con il conseguente cambio della costituzione e le elezioni legislative, boicottate da gran parte dell’opposizione, non sono state sufficienti a calmare gli animi.

Gli scontri sono concentrati soprattutto nelle città come Homs, Daraa, Hama e Idlib, dove guerriglieri “ribelli” cercano di occupare alcune zone strategiche per combattere l’esercito di Al-Assad: l’organizzazione e la forza fanno sì che questo esercito sembri di buon livello.

Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite in questi mesi ha continuato a riunirsi e discutere senza trovare una soluzione, anche grazie a due grandi potenze come Russia e Cina che non hanno permesso all’Occidente di interferire negli affari interni siriani. Questa scelta da parte di Russia e Cina è condizionata da interessi geopolitico-militari: la Siria ospita nel porto di Tartus l’unica base navale della Marina russa fuori dal territorio dell’ex Unione Sovietica, ed è acquirente di armamenti russi5. Dal destino della Siria dipende l’intero equilibrio regionale e valutare un’ipotesi d’intervento militare nel paese non sarebbe la soluzione migliore poiché comporterebbe molti rischi e potrebbe avere un effetto devastante sull’intera regione mediorientale con reazioni a catena.

Il quadro politico interno siriano è molto complesso poiché, oltre ai sostenitori del partito Ba‘th e il fronte degli “Amici della Siria”, troviamo vari gruppi pronti ad “apportare” il proprio contributo nel paese. I gruppi terroristici “affiliati ad al-Qâ‘ida6, arrivati dal vicino Iraq e da altri paesi, hanno iniziato a muoversi destabilizzando il paese. Anche i Curdi e il partito PKK potrebbero creare non pochi problemi visto che, secondo il centro turco dell’’Orsam7, il governo siriano avrebbe concesso molta libertà di azione e ci sarebbe stato un riavvicinamento tra le due parti nonostante l’accordo firmato con la Turchia nel 1998.

L’intervento militare in Siria quindi trascinerebbe tutta l’intera regione mediorientale in un conflitto irrefrenabile, soprattutto per il coinvolgimento su più fronti dove sarebbero implicati altri paesi. Infatti, secondo fonti d’intelligence, sembra che da alcuni mesi i Guardiani della Rivoluzione iraniana starebbero addestrando i generali siriani e fornendo armi alla Siria, offrendo cosi un aiuto all’esercito siriano insieme a quello libanese di Hezbollah. Però non sembrano essere gli unici stranieri operanti in Siria, perché rimettendosi a quello che riporta il sito d’intelligence israeliano Debka file8, dentro al territorio siriano ci sarebbero, oltre a vari gruppi armati provenienti da Libia, Turchia, Iraq ecc., anche unità di forze speciali britanniche e del Qatar, infiltrate in città come Homs, anche se non starebbero partecipando direttamente ai combattimenti, ma starebbero aiutando con assistenza tecnica e militare i “ribelli”. Israele, come sempre organizzato ed efficiente, non ha perso tempo e si è preparato a qualsiasi evenienza, anche se l’opinione pubblica è titubante poiché Tel Aviv nutre forti timori rispetto a una possibile affermazione dell’Islam “fondamentalista” al posto del presente governo siriano, preferendo quasi l’attuale situazione di “stallo”.

Nel frattempo ai confini sembra che ci si stia organizzando anche a un intervento militare, visto che attraverso dei report giordani si apprende che, negli ultimi mesi, un numero imprecisato di truppe statunitensi, ritiratesi dall’Iraq, sono state dispiegate nella base aerea militare giordana e nei paesini vicini a Al-Mafrag, lungo la frontiera sirio-giordana9, dove è stata istituita anche una zona cuscinetto vicino al confine nord, situata intorno alle città di Al-Mafrag e Ramtha che si estende approssimativamente per 30 Km di longitudine e 10 Km di profondità.

Intanto gli esponenti di Hamas fanno sapere che appoggeranno tutti quelli che si opporranno al governo siriano e invitano la popolazione alla rivolta contro il regime10: questo allontanamento di Hamas dal regime siriano è il risultato di una ricollocazione politica, spinta anche dalla situazione del conflitto settario, visto che la maggioranza del paese è sunnita, dove il Qatar ha avuto un ruolo fondamentale offrendo finanziamenti e protezione.

Le associazioni umanitarie, una su tutte la Croce Rossa Internazionale, finora hanno avuto grandi problemi a entrare nel paese e raggiungere le zone più colpite per portare soccorso. I “corridoi” umanitari che si è cercato di stabilire per far si che le organizzazioni potessero agire in sicurezza, non sono stati creati come spesso avviene, aumentando il disagio. Inoltre come riporta l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, l’esodo dei profughi è diventato un grosso problema: dall’inizio del conflitto si sono mosse verso le frontiere libanesi, turche, giordane e irachene11 circa 86.000 persone. Numero destinato a salire giorno dopo giorno poiché incontrollabile.

La missione approvata e messa in atto dalle Nazioni Unite, col coinvolgimento dell’ex Segretario Generale delle Nazioni Unite Kofi Annan in qualità di osservatore nelle zone di guerra per “fermare il massacro di civili”, si è rivelata un buco nell’acqua poiché la situazione si è dimostrata più complessa del previsto. Anche le risoluzioni numero 2042 e 2043 approvate all’unanimità dal Consiglio di Sicurezza e che avevano come obiettivo il dispiegamento sul territorio degli osservatori internazionali, con accesso in tutto il paese senza restrizioni e con la libertà di dislocarsi nelle diverse città intervistando i cittadini12, non sono servite per placare le violenze e il massacro: lo stesso “inventore”, Kofi Annan, ha recentemente dichiarato il fallimento del suo piano che aveva sostenuto fino a poco tempo fa.

La Siria oltre ad essere un territorio difficile è totalmente diversa dalla Libia, e l’approccio utilizzato nel paese nord africano non servirebbe a niente. L’esercito siriano è sicuramente più forte e organizzato rispetto a quello libico: la sua competenza lo avvicina a eserciti di rilevanza internazionale. Arrivare al punto di dover intervenire sarebbe un rischio troppo pericoloso e fare un passo decisivo in questo senso potrebbe significare anche perdere il totale controllo della regione, senza dimenticarsi che potrebbe peggiorare le relazioni con l’Iran.

I paesi NATO continuano a riunirsi per cercare una soluzione poiché la situazione attuale è di totale confusione e continua instabilità, soprattutto a causa degli attentati, problema non facile da isolare a causa dei vari gruppi radicali nel territorio, arrivati anche dai paesi vicini. Dopo la riunione NATO a Chicago di fine maggio, si è tenuta il 30 di giugno quella di Ginevra voluta dal rappresentante della ONU e della Lega Araba Kofi Annan, secondo cui la soluzione migliore per fermare le violenze sarebbe incominciare una transizione politica di cui facciano parte anche membri dell’attuale regime. Russia e Cina continuano a boicottare le riunioni degli “amici della Siria” e tenere sotto controllo i paesi che sin dall’inizio hanno voluto che ogni piano risolutivo fallisse”, come ha anche sottolineato ultimamente l’inviato speciale delle Nazioni Unite.

Al confine con la Turchia le forze siriane hanno abbattuto un aereo turco entrato, secondo fonti stampa, in territorio siriano. Bashar al-Assad dichiara che il suo paese è in stato di guerra e come tale, non avendo riconosciuto l’aereo sono stati costretti a difendersi, la Turchia chiede sanzioni e prende contromisure portando i suoi carri armati al confine.

Nel frattempo Kofi Annan dopo l’incontro col presidente Bashar Al-Assad si è detto soddisfatto, poiché ha concordato un nuovo “piano” per fermare le violenze che si basa sulla proposta di un esecutivo di unità nazionale come richiesto nel Vertice di Ginevra. Inoltre, sapendo che l’appoggio degli alleati siriani è fondamentale, l’ex Segretario ONU è volato a Teheran per discutere sulla situazione della regione. Per gli iraniani la soluzione migliore sarebbe indire nuove elezioni in Siria entro il 2014, poiché nessun leader è “eterno”; però, nel frattempo, le grandi potenze dovrebbero smettere di interferire negli affari interni del paese per non peggiorare la situazione.

Anche nell’eventualità che una transizione avesse esito positivo, i tempi di reazione sarebbero davvero lunghi e gli avvenimenti non migliorerebbero in breve tempo, quindi l’ipotesi più gradita a tutte le nazioni sarebbe inviare una missione di pace ONU in tutto il territorio, per garantire la serenità e un equilibrio. Però purtroppo per il momento mancano le condizioni per attuare qualcosa di simile.

Mentre gli scontri rischiano di trascinare anche il Libano in una guerra civile sempre più estesa13, il mondo rimane a guardare l’evolversi del conflitto nella speranza che si riesca ad evitare il “ristagno” avuto finora, che prolungherebbe una situazione logorante e continuerebbe a devastare la popolazione lasciando inalterati gli equilibri politico-religiosi e convertendo questa zona in un nuovo Iraq; anche se per “qualcuno” potrebbe essere una valida soluzione. I continui tentativi di dialogo riusciranno a salvare questa zona da un’intervento militare?


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