Così è arrivato il momento di parlare in pubblico per farsi conoscere. La prima sessione dei lavori preparatori del Forum sociale mondiale 2013 è per Boats4People. All’Istituto superiore di biotecnologia stanno confluendo personaggi provenienti da diverse lotte, e trovare posto nell’aula ad anfiteatro è difficile, mentre il tempo passa lentamente. Si tratterà di dimostrare pazienza, come lo stesso Muhīeddīn Cherbīb della Federazione tunisina per una cittadinanza delle due rive chiede all’assemblea, appellandosi al fatto che a Dakar le cose erano peggiori. Queste giornate di lavori erano iniziate nella fortezza di al-Ribāt, la sera precedente, giovedì 12 luglio, in pompa magna, con Chico Whitaker, co-iniziatore del Forum dodici anni prima a Porto Alegre, che a nome di tutti esprimeva la gioia di essere nella patria della nuova stagione di rivoluzioni e proteste per la libertà, il lavoro e la giustizia sociale. Cento e cinquanta organizzazioni coinvolte per fare avanzare la macchina del Forum, o come si dice in questo ambiente “le processus”; uno spazio di scambio e incontro per cambiare il mondo, dove fare e far crescere delle proposte; una nuova cultura politica basata sulla cooperazione e il consenso; una sfida per il Forum stesso, chiamato a rinnovarsi di fronte ai nuovi movimenti che crescono al di fuori dei circuiti tradizionali della sinistra. Per Chico, la Tunisia, quale culla dei movimenti arabi per la libertà e la giustizia, ha la legittimità per ospitare la prossima edizione del Forum, come i movimenti indigeni dell’America latina furono dieci anni fa i legittimi portatori del messaggio universale di un nuovo modello di sviluppo. Per questo, tutti coloro che si susseguiranno sul palco renderanno omaggio ai martiri della rivoluzione del 14 gennaio 2011 e ai suoi difensori come gli avvocati ʿAmr as-Safrāwī o Sharaf ad-Dīn al-Qalīl. Tra slogans della strada tunisina intonati ad alta voce e proclami per piazze più capienti, Thiat Keurgui, che parlerà a nome di Y’en a marre, geniale movimento senegalese che ha saputo mobilitare i giovani a difesa delle istituzioni democratiche e dei diritti dei cittadini, sostituendosi sovente alle autorità nell’affrontare il degrado delle città senegalesi, dice una cosa semplice, ma profonda: “Ogni generazione ha un compito. Dobbiamo scegliere se assumerlo o ignorarlo”.
Quando le madri dei migranti dispersi in mare o scomparsi in terraferma salgono le scale dell’anfiteatro, portando riquadri con le foto dei propri figli, la platea è disorientata dalla miscela di rabbia, tristezza e determinazione di queste genitrici, che di fronte alla telecamera sollevano le icone dei loro amati sperando chissà di alimentare una pista supplementare per ritrovarli. Di fronte a queste donne dal capo coperto, vestite con gli abiti lunghi della loro terra, i giovani attivisti ornati di orecchini e bracciali, o dai capelli lunghi, vengono esposti a un arduo esercizio di comprensione delle differenze, che rappresenta forse una delle maggiori ricchezze di questi incontri. Perché quei giovani che avevano preso il mare non avevano niente di alternativo, anzi credevano semplicemente di poter ambire a un lavoro meglio remunerato e a condizioni di vita più agiate. Una di queste madri mostra all’assemblea una sequenza televisiva del mese di settembre 2010, in cui riconobbe il figlio in procinto di sbarcare a Lampedusa, per questo sa che il suo ragazzo non è morto in mare, e dunque le sue tracce devono essere ritrovate, qualunque sia la verità che si nasconde dietro il suo destino. Hanno incontrato il presidente e il primo ministro tunisini, Berlusconi presidente del consiglio, ma le inchieste che interessano almeno trecento e cinquanta casi non hanno dato i risultati attesi, anche se il ministro degli interni italiano Annamaria Cancellieri ha dichiarato il 16 maggio u.s., rispondendo ad un’interrogazione dei deputati Livia Turco e Gianclaudio Bressa, che le indagini sui dispersi si erano concluse (con il solo ritrovamento di quattordici ragazzi). Quella donna ha una fermezza inconfondibile, parla scandendo le parole, porta tunica e velo bianco avorio e assiste le altre madri, i cui abiti tendono al nero, nell’esposizione della propria storia. La sua parvenza chiara sembra voler rischiarare l’anima delle sue compagne. Nicanor Haon, coordinatore di Boats4People, stima che l’onda migratoria che si è prodotta nel corso del 2011 dopo le rivoluzioni arabe abbia interessato tra le 22 e le 35 mila persone, soprattutto giovani tra i 16 ed i 25 anni di età. Muhīeddīn Cherbīb ricorda di come il 29 marzo 2011 Berlusconi si presentò a Tunisi con il denaro, proponendosi di pagare lautamente il rimpatrio di quei giovani tunisini, ma ricevette un secco “no” perché le autorità locali si rifiutarono di accettare rimpatri di massa. Nel cortile dell’Istituto superiore di biotecnologia sta srotolato sul pavimento un lungo striscione verticale che cita i nomi dei 16.175 tra rifugiati e immigrati che hanno trovato la morte in Europa tra il 1 gennaio 1993 e il 30 maggio 2012: speriamo tutti che gli scomparsi non vadano ad aggiungersi a quei nomi.
Non meglio se la passano gli africani rinchiusi nei centri di detenzione libici. Mesʿūd ar-Ramdhānī, della Federazione internazionale dei diritti dell’uomo, è appena rientrato dalla Libia, dove ha visitato tra il 7 ed il 15 giugno diversi campi, descivendo la situazione dei migranti subsahariani come inquietante: un generale clima di xenofobia domina il paese, nel quale il numero dei neri africani si stima tra il milione e mezzo ed i due milioni e mezzo; delle milizie armate gestiscono in modo assolutamente arbitrario i campi di detenzione, in cui vengono internati i neri che vengono catturati durante vere e proprie battute, senza distinguere tra immigrati, rifugiati o richiedenti asilo, con l’accusa di non essere in regola con i documenti, di aver sostenuto Gheddafi o di portare epidemie, prostituzione e spaccio; le condizioni di vita in quei campi sono deplorabili, il cibo è pessimo e l’utilizzo della violenza quotidiano; privi di qualunque tutela legale, questi neri sono diventati una massa operaia contrattabile a basso costo dai datori di lavoro della regione, o vengono soggetti a vessazioni finanziarie in cambio della loro liberazione, alimentando reti mafiose che coinvolgono milizie armate, trafficanti e imprenditori senza scrupoli. Preoccupante è pure la situazione del campo di rifugiati situato nella località tunisina di Chūcha, della quale ha dato testimonianza un ragazzo del Bangladesh, e che ha fatto oggetto di un apposito gruppo di lavoro all’Istituto di biotecnologia. A questo proposito, vorrei raccontare un episodio curioso che riguarda Boats4People: un gruppo di attivisti tedeschi della campagna, qualche giorno prima dell’apertura dei lavori preparatori del Forum, si era presentato al campo con l’intenzione di entrare, ma era stato fermato dalle forze dell’ordine. Il gruppo non aveva chiesto il permesso precedentemente e pare che non volesse entrare in dialogo con le autorità, adducendo che fosse un loro dovere (o diritto) visionare l’area. Naturalmente non entrarono: una tale azione rivendicativa non poteva aver successo nel contesto tunisino; la mera superposizione di pratiche di azione relativamente usuali in Europa ha dimostrato l’immaturità del movimento, aprendo al suo interno un dibattito sulla necessità di comprendere e adattarsi alla situazione locale, pur di ottenere qualcosa, in questo caso l’accesso al centro. Ma andiamo oltre.
Due cose mi paiono chiare dopo aver passato una settimana con Boats4People ed aver ascoltato testimonianze dirette: le restrizioni all’accesso e la conseguente criminalizzazione dell’immigrazione illegale verso l’Europa hanno esposto i cittadini dell’ Africa subsahariana e settentrionale, che tentano la fuga mossi da differenti motivazioni, agli appetiti di mafie senza scrupoli ed ai rischi di morte lungo il tragitto; il processo di esternalizzazione delle frontiere ai paesi della costa settentrionale del Mediterraneo si approfondisce, esonerando sempre più le nostre nazioni europee dalle responsabilità di accoglienza e gestione dei flussi migratori, e affidando il “lavoro sporco” di contenimento dei flussi ai paesi limitrofi, in cui maltrattamento e violenza nei confronti dei migranti neri sono manifestazioni frequenti e sovente giustificate per la presenza di pregiudizi e sentimenti xenofobi diffusi. Ora, cosa vogliono i movimenti riunitisi a Monastīr sulla questione dei dispersi e dei respingimenti? Citiamo di seguito alcune delle proposte raccolte tra le organizzazioni che lavorano con gli immigrati e sui diritti umani presenti: istituzione di una commissione d’inchiesta internazionale indipendente che affronti la problematica, mentre le Nazioni Unite dovrebbero inviare una missione investigativa; richiesta di ricorso contro le sparizioni alla Corte internazionale di giustizia dell’Aja, e appello alla Corte africana dei diritti dell’uomo; cooperazione e scambio di pratiche d’azione e conoscenze legali tra le associazioni e i collettivi che lavorano sulle sparizioni nella regione; richiesta di sostegno economico alle famiglie dei dispersi o delle vittime del mare. La prima cosa, però, che chiedono le famiglie dei dispersi e delle vittime del mare è la verità, e la seconda giustizia. Quando raggiungiamo il porto peschereccio di Qsība al-Madyūnī, da dove sovente sono partiti degli scafi diretti a Nord, alcune madri piangono disperatamente perché il mare ricorda loro i figli perduti. È una scena desolante, perché il loro pianto è solitario nonostante le decine e decine di delegati che confluiscono per ricevere la goletta Oloferne, simbolo della campagna Boats4People. Queste donne si siedono sulla scogliera e guardano in lacrime un mare piatto e puzzolente, invaso dalle alghe e dalle memorie; un pianto vero, mentre l’arrivo dell’Oloferne è una messa in scena, visto che il vascello era arrivato tre giorni prima (io ero uno dei passeggeri), anche se molti dei partecipanti non lo sanno, né vedranno da vicino l’Oloferne. I fondali bassi lo costringeranno infatti a fermarsi a circa un km dalla costa, dove nonostante la distanza si incaglierà comunque. Resta un mistero come gli organizzatori abbiano pensato di poterlo ricevere in quel porticciolo di melma e vecchie barche. Quando i passeggeri, che nella maggioranza non erano quelli che avevano attraversato il mare, raggiungono la terraferma con le imbarcazioni messe a disposizione dai pescatori, si sentono grida e applausi. Alcune lanterne cinesi si levano in cielo, e un gruppo di teatranti seminudi ricoperti di colore bianco raggiunge la punta del molo facendosi breccia tra i partecipanti; d’improvviso il gruppo schizza della vernice rossa attorno a sé per simulare lo spargimento di sangue, ma così facendo imbratta i presenti. Incontro ʿAtīqa Belhasen, giovane attivista della Lega algerina per la difesa dei diritti umani, che si unisce alla discussione con Saʿīd Salhī membro del Consiglio del Forum sociale mondiale per conto del Coordinamento delle associazioni maghrebine per i diritti umani. Saʿīd dice che la visione per il post-capitalismo non è ancora matura neppure tra le organizzazioni del Forum, e ʿAtīqa, che è giovane, formosa e scaltra, aggiunge: “Abbiamo bisogno di costruire delle pratiche, rompendo con i tabù ideologici e l’ipocrisia. E dovremmo evitare le gesticolazioni e concentrarci sullo sviluppo di un senso di appartenenza comune!”. Forse fa allusione anche agli slogans che ha sentito nei lavori preparatori del Forum, e alla parata mal riuscita di quel giorno; certamente allude alle posizioni di molte femministe arabe presenti a Monastīr, che rischiano di essere tanto estremiste come quelle di altre correnti ideologiche. “Con le nostre pretese di essere i soli democratici, non abbiamo saputo comunicare al di fuori del cerchio dei nostri simpatizzanti, né vedere quanto succedeva attorno a noi, quando l’Islam politico s’imponeva”. Questi accenti autocritici sembrano uscire più facilmente dalla bocca dei più giovani, e quando uno dei membri del Consiglio del Forum, durante il seminario del 15 luglio su movimenti sociali e rivolte, propone un rinnovamento profondo delle cariche, nessuno riprende il suo appello. Brooke Lehman, di Occupy New York, durante la sua testimonianza dice qualcosa di importante: “Per la prima volta, nel nostro paese un movimento di protesta che critica il sistema esce dai circoli della sinistra e entra nella cultura popolare. Per la prima volta, molti cittadini non politicizzati si radicalizzano, e invece di colpevolizzare se stessi per i fallimenti in cui si imbattono, colpevolizzano il sistema”. I nuovi movimenti rivendicativi, i giovani delle rivoluzioni arabe bussano alle porte del Forum sociale mondiale, e si fanno domande. Perché non si parla della Siria? Dove sono i greci e gli spagnoli? Dove sono gli egiziani e gli yemeniti? E della crisi ecologica, perché non se ne parla? Ed io aggiungerei: dove sono gli israeliani? Ci saranno al Forum o saranno esclusi per il passaporto che portano? E verranno invitati gli islamisti, che rappresentano il movimento sociale più strutturato e diffuso nel mondo arabo?
Siccome non ve ne erano ai lavori preparatori del Forum, il sabato 14 luglio prendevo un louage e andavo a Tunisi per ascoltare l’intervento degli scheicchi Rashīd al-Ghannūshī e ʿAbdelfattah Mūrū al primo congresso pubblico del loro partito an-Nahdha (“Rinascita”). Tra hostess con velo azzurro e abito scuro e centinaia di aderenti, nonostante abbiano preso la parola solamente degli uomini e non sia stata data la possibilità al pubblico di fare domande – si parlava di movimento islamico e processi di cambiamento – ho fatto tesoro di alcuni messaggi forti: siamo un movimento cittadino moderato, il cambiamento generato dalla rivoluzione tunisina deve avanzare per tappe, vogliamo uno stato cittadino in cui le diverse comunità religiose e etniche trovino il loro posto, e in cui le relazioni siano tra essere umano e essere umano. Un rappresentante dei Fratelli musulmani giordani prenderà la parola più tardi per dire : « Tutto è Islām, ma in esso non vi è Islām », intendendo dire che l’Islam deve garantire l’espressione di tutti e non aspirare al dominio. Kamāl Lahbīb, del Forum des alternatives del Marocco ed uno degli esponenti di spicco dell’organizzazione del Forum sociale, mi spiegherà il giorno dopo che non è d’accordo nell’escludere l’Islām politico, e che la loro partecipazione deve essere possibile, a condizione che condividano i principii fondatori del Forum, non rimettano in discussione la democrazia e tutelino le libertà collettive e individuali. Kamāl considera il Forum come un processo che deve investire soprattutto nei paesi che sono maturi per un cambiamento democratico : per questo nella regione araba il Forum puntò soprattutto su Tunisia, Egitto e Irak, con l’obiettivo di rafforzare una società civile indipendente. Nonostante le defezioni, e si riferisce soprattutto agli egiziani, o la scarsa rappresentatività di alcuni paesi, e si riferisce a Siria e Libia, il bilancio dei lavori preparatori del Forum si deve misurare sui numerosi contatti e il coordinamento che nascono tra i diversi attori presenti. Organizzare un Forum mondiale in Tunisia è un’impresa coraggiosa, senza precedenti, i cui costi per la partecipazione di almeno 20mila persone si stimano attorno a 1m €.
Per chi lotta per i diritti dei migranti questi lavori preparatori, nonostante gesticolazioni e difficoltà logistiche, hanno rappresentato una buona piattaforma per stabilire relazioni e trovare alleati, ma la sfida è grande, ed è un poco la sfida di tutta la macchina del Forum sociale mondiale: come aprirsi alla gente comune, come raggiungere chi non è politicizzato per creare alleanze utili alla causa ed alle ragioni dei migranti; come incrociare le lotte di diversi movimenti affinché la crisi migratoria sia vista nell’ottica di una crisi globale di sistema, e i movimenti che si occupano di società, economia, ambiente, cultura o politica tengano conto dell’impatto negativo che certe politiche hanno sulle cause dei flussi migratori. Uno degli attivisti più applauditi a Monastīr è il nerissimo senegalese Thiat Keurgui, barbetta e cuffia. Invece di emigrare, Thiat ha preferito mobilitarsi e contribuire con Y’en a marre a fare dei suoi connazionali dei cittadini attivi che denunciano abusi e violazioni, e prendono l’iniziativa quando lo Stato è assente. È forse l’esempio migliore di una storia di successo per i movimenti sociali che operano in contesti in transizione democratica. Boats4People e il Forum sociale mondiale hanno bisogno di persone come lui per fare rete.
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18 luglio 2012
Gianluca Solera