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Doppia recensione: Il tempo è un bastardo di Jennifer Egan

Creato il 23 febbraio 2012 da Viadeiserpenti @viadeiserpenti

Doppia recensione: Il tempo è un bastardo di Jennifer EganRecensione di Manuela Di Vito

Il tempo è un bastardo è un libro-specchio in cui le vite degli uni rimbalzano tra le pagine riflettendosi in quelle degli altri. Immagini del passato che si alternano a visioni future: ricordi, e ricordi al contrario. Ogni storia ne apre altre e si conclude in altre ancora. Un cerchio grande che si chiude solo alla fine, pur rimanendo aperto. Un dispiegarsi corale di avvenimenti che si incrociano negli anni, persone che si toccano. Singoli racconti che appartengono a un’unica narrazione.
E allora di cosa parla il libro, di chi? Un protagonista c’è, in effetti, ma è protagonista solo nella misura in cui intorno alla sua, più o meno, ruotano le altre vite. È Bennie Salazar: pelle scura, provenienza ignota, forse ispanico, anzi cholo, messicano, carismatico amante della musica fino al fanatismo o al misticismo. Incontriamo Bennie nella sua versione adolescente punk, poi giovane fondatore di un’etichetta musicale, infine ex: ex marito, ex padrone dell’etichetta musicale, ex direttore di quell’etichetta che ha venduto a una multinazionale.
Oppure no, oppure il vero protagonista è un altro, la musica stessa: quadro e cornice, colonna sonora e luce che dà vita ai colori.
O non è neanche la musica ma il tempo che, come recita il titolo, è un “bastardo”, perché inesorabile col suo trascorrere continuo. Il tempo ha una voce tutta sua, un suono che cresce col passare degli anni, un fruscio di sottofondo che è tutti i rumori insieme, tutte le voci di tutte le cose che uno ascolta nel corso della vita e che riesce a percepire solo quando rischia di divenire assordante.

«Alex chiuse gli occhi e ascoltò: la saracinesca di un negozio che scendeva. Il rauco abbaiare di un cane. Il fragore dei camion sui ponti. La notte vellutata nelle sue orecchie. E la pulsazione, sempre quella pulsazione, che forse in fin dei conti non era un eco, ma il suono del tempo che passava».

Il tempo che passa è un bastardo perché corrompe le cose: le persone, le amicizie, tutto cambia e si imputridisce, diviene patetico. «Cosa è successo tra A e B?», si chiede Scotty, amico di Bennie ai tempi dei Flaming Dildos, il loro gruppo di musica punk. Ora lui passa il suo tempo libero per lo più da solo, a mangiare cinese o «sotto il ponte di Williamsburg con la lenza nell’East River», mentre Bennie è un uomo di successo, con un ufficio dietro la cui scrivania «non c’era nient’altro che panorama: l’intera città era sotto di noi come sui banchetti per strada i venditori ambulanti stendono i loro asciugamani coperti di orologi e cinture luccicanti da due soldi. Da lì New York sembrava esattamente quello: una cosa bellissima e alla portata di chiunque. Anche di uno come me».
Che cosa è successo tra A e B? è la domanda chiave del libro. Che cosa c’è tra il momento in cui tutto ha inizio e quello in cui siamo, tra il lato A del vecchio vinile e il suo lato B? Qualcosa, sospeso, galleggia sul tempo come nuvole in un cielo terso. Ma cos’è? La criptica risposta si cela tra le pagine, sparsa come mangime per i piccioni, un granello di qua e tre di là, ma a renderla esplicita è il tredicenne Lincoln che, a detta della sorella, «su certi argomenti ne sa più dei grandi»: la pausa.
Sono le pause a dar senso alla musica, a rendere belle le canzoni. Più una pausa è lunga e più il pezzo guadagna in grandezza.

«“Bernadette” dei Four Lops. “Un’ottima pausa d’altri tempi. La voce sfuma, dopodiché ci sono 1,5 secondi di silenzio assoluto, da 2:38 a 2:395, prima che riparta il ritornello. Tu pensi: ‘Ehi, ma allora la canzone non era finita’. E invece 26,5 secondi dopo finisce davvero”».

E: «“Sai papà, alla fine di ‘Fly Like an Eagle’ c’è un silenzio parziale, con una specie di fruscio in sottofondo che secondo me rappresenta il vento, o forse il tempo che passa”».

Quando ti sembra che la canzone sia finita, invece ricomincia, in mezzo una pausa che non sai come ci sei arrivato da lì a qui, eppure ci sei.
Oppure, infine, protagonista è la ricerca della purezza, che è facile trovare negli occhi di un bambino, un “puntadita”, come nella voce di un vecchio musicista.
La scrittura rimane limpida, nonostante i tempi verbali siano mescolati proprio a causa dell’alternarsi tra passato, presente e futuro. Lo zoom quindi si avvicina e si allontana: il passato è passato, lontano, il lato A, il presente è qui e ora, B, immediatezza dei sentimenti, al limite della paratassi. Ma è anche il saltellare dalla prima, alla terza, a un’insolita seconda persona a movimentare le inquadrature.

«Ridono tutti tranne Bix, che è al computer, e per qualcosa come mezzo secondo tu ti senti una persona spiritosa, finché non pensi che probabilmente hanno riso solo perché hanno visto che ti sforzavi di essere spiritoso e hanno paura che se non ci riesci poi ti butti dalla finestra sulla Settima East, anche per una cosa da niente come questa».

E, come se non bastasse, nel finale ci sono settantacinque pagine di slide in Power Point da leggere come il diario di una dodicenne, Allison, la sorella di Lincoln. Siamo nel 2020 ed è forse questo un avvertimento dell’autrice circa i pericoli della tecnologia o solamente un soccombere al suo fascino, al fascino delle nuove generazioni che già a due anni sanno scaricare canzoni dal loro microportatile solamente puntando un dito?
La cosa bella è che tutto scorre senza intoppi e senza fretta nonostante i salti di stile, di tempo, di luogo, da New York a san Francisco al Kenya, e se all’inizio fremi di curiosità, dopo un po’ capisci che prima o poi verrai a sapere che cosa succede a tutti. Devi solo continuare a leggere, che forse è una pausa tra A, e B.

 

Jennifer Egan Il tempo è un bastardo
traduzione di Matteo Colombo
minimum fax, 2011
pp. 400, euro 18

leggi anche la recensione di Eleonora Rossi


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