Luca ‘Acey’ Arioli: Eravamo rimasti nel 2012 con Stones Grow Her Name ed eccoci nuovamente a parlare dei Sonata Arctica esattamente a due anni di distanza. Puntuale come un orologio svizzero (finlandese in questo caso) arriva dritto dritto nelle nostre orecchie il nuovo Pariah’s Child. Il penultimo lavoro mi aveva lasciato piacevolmente spiazzato ed attendevo con ansia di ascoltare il prosieguo della direzione artistica intrapresa dalla band in questi ultimi sei anni. E con assoluta certezza posso dirvi che il disco in questione è il migliore della band dai tempi di Winterheart’s Guild. Finalmente dolci donzelle con la testa a forma di mela morsicata lasciano il posto ad una copertina in vecchio stile Sonata, un vero piacere per gli occhi. Ed il disco è altrettanto accattivante quanto la cover. Se Stones Grow Her Name alternava momenti di grande ispirazione ad altri di monotonia con passaggi decisamente riusciti solo a metà nel loro intento di spaziare tra più generi, il nuovo platter ha la capacità di far rimanere alta l’attenzione dell’ascoltatore. Finalmente cavalcate in pieno stile power si alternano a parti melodiche “Kakko’s style” in maniera più che armoniosa ed anche l’alternanza di parti progressive e riflessive che sfociano in parti metalliche con cori armoniosi ed armonizzati è notevole, di elevata fattura ed alta sapienza compositiva. Come se non bastasse non mancano canzoni chiaramente hard rock che sballottano ma allo stesso tempo mantengono l’ascoltatore incollato allo stereo. Si parte con il piede dell’acceleratore spinto a metà con The Wolves Die Young per poi inserire decisamente la sesta con la Running Lights che inizia con un riff di timotolkkiana memoria. Si passa poi al progressive rock delle successiva Take One Breath ed alla festaiola ed allegra Cloud Factory. Il tutto con una naturalezza imbarazzante. La melodia centrale e portante di Blood è qualcosa che lascia così spiazzati nel suo incedere tragimelodico che rimarrete increduli quando il tutto sfocerà in cavalcate tanto dolci quanto potenti e curate in stile Nightwish. Insomma tutto concentrato in una super song. Sentire per credere. L’ingannevole inizio della successiva What Did You Do In The War, Dad? vi farà cadere in una dolce melodia che vi cullerà fino a metà canzone per poi colpirvi con un successivo incedere puramente progressive metal, questa volta devoto ai migliori Dream Theater. Nella seguente e teatrale Half A Marathon Man parti metal, hard rock, AOR si alternano sapientemente con riff, assoli di chitarra e parti melodiche sorprendenti. Sembrerà di ascoltare più di una song insieme. Ciò accade anche nella successiva X Marks The Spot, figlia e debitrice del precedente album. Le ultime due canzoni del disco, più riflessive ed accoglienti, in particolar modo la lunga e finale Larger Than Life chiudono in maniera egregia questo Pariah’s Child che fa del suo punto di forza proprio la varietà delle canzoni e la grande capacità dei Sonata Arctica di spaziare tra più generi, questa volta in maniera assoluta e che porta la band finnica – come se ce ne fosse bisogno – al vertice della scena power scandinava. Tra i gli album migliori della loro discografia. Da avere!
Roberto ‘Trainspotting’ Bargone: È la seconda volta che io e Luca facciamo una doppia recensione sui Sonata Arctica ed è la seconda volta che il nostro parere è agli opposti. Qui anche di più, perché, se Stones Grow Her Name mi aveva semplicemente lasciato rassegnato e un po’ disgustato, questo Pariah’s Child fa talmente schifo che non si può non parlarne male. Mi dispiace per Luca che peraltro è tornato in pista con un nuovo gruppo che potete ascoltare qui e che oltretutto mi pare molto meglio di quest’ultimo aborto dei Sonata Arctica che è veramente indifendibile. Mi dispiace anche che su wordpress non si possa bestemmiare perché davvero ogni volta che ascolto questo disco ho un flusso di coscienza in testa solo di bestemmie. Non c’è altro che la bestemmia per un disco che inizia con una canzone che si chiama The Wolves Die Young e si apre con un ruggito. I lupi ruggiscono, i leoni barriscono e la puttana che sappiamo noi canta la Marsigliese saltellando. Dai, ma come cazzo si fa. Questo è senza dubbio il peggior disco mai uscito dalla Finlandia e non sto affatto esagerando. A un certo punto c’è una canzone chiamata X Marks The Spot in cui Tony Kakko duetta con un mentecatto che imita uno di quei pastori protestanti americani deficienti che cantano e ballano. Poi questa canzone si trasforma in uno di quei suddetti spettacolini danzanti imbecilli, ma ovviamente essendo questo non un disco normale ma un abisso lovecraftiano ricolmo di merda ribollente che infiniti eoni fa generò YOG-SOTHOTH, il guardiano della soglia, il Nocivo, colui che trasuda come brodo primordiale nel caos nucleare al di là degli avamposti più remoti dello spazio e del tempo; essendo questo non un disco normale, dicevamo, ma un immondo cacatoio che invano abbiamo cercato di descrivere (proprio come le creazioni innominabili di Lovecraft, talmente estranee alla comune logica umana da non esserci parole adatte a descriverle), ne consegue che questa messa cantata afroamericana viene fuori come una grottesca parodia di plastica, così come Wilbur Whateley, il figlio semiumano di Yog-Sothoth, non è che fosse uscito proprio benissimo. A tutta la gente normale consiglio vivamente di fare in modo che questa latrina non sopravviva alla nostra generazione, perché presto arriverà l’apocalisse nucleare e dobbiamo fare in modo che chi avrà il compito di ricostruire l’umanità non ci giudichi da cose come Pariah’s Child e Matteo Renzi. Lo consiglio invece a chiunque voglia suicidarsi e desideri avere un motivo in più per convincersi che la vita è una merda.